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Gemelle imperfette “Il mondo non si guarderà mai indietro. E se anche lo farà, con ogni probabilità dirà che in realtà non è mai successo”. Sono parole che racchiudono un dolore profondo e una saggezza adulta quelle che pronuncia nel romanzo “Gemelle imperfette” Feliks, un bambino di tredici anni, unico sopravvissuto di una coppia di gemelli internati ad Auschwitz e sottoposti agli esperimenti di eugenetica del medico nazista Josef Mengele. Nuova voce della letteratura americana, Affinity Konar discendente di immigrati polacchi racconta nel suo esordio narrativo uno dei momenti più drammatici della Seconda Guerra Mondiale, la Shoah. E lo fa attraverso gli occhi di due gemelle dodicenni, Stasha e Pearl, catturate nell’ottobre del 1944 insieme al nonno paterno e alla mamma nel ghetto di Lodz e deportate ad Auschwitz. Nel campo di sterminio sono accolte da una musica ingannevole e subito separate sia dalla madre, che spera una sorte migliore per loro affidandole al medico nazista, sia dal nonno ex professore universitario di biologia che lascia alle nipoti in eredità la forza morale per affrontare il mondo crudele che le attende. Stasha e Pearl traggono vigore l’una dall’altra, grazie ad un codice segreto e a un linguaggio condiviso che sin dalla nascita ha permesso loro di crearsi un mondo a parte in cui possono capirsi e sostenersi. Pearl è la gemella seria e assennata che ama ballare e da sempre ha l’incarico di occuparsi della tristezza, del bene e del passato, mentre Stasha, più fantasiosa, si cura del gioco e del futuro. Insieme pensano di poter affrontare qualunque avversità ma non hanno ancora fatto i conti con il campo di concentramento e con la presenza sinistra di un medico dall’aria gentile che si fa chiamare Zio. Perché lo Zoo dove Mengele le rinchiude, una struttura che una volta era usata come stalla per i cavalli, è un luogo di orrori, di privazioni e di torture che ospita altre coppie o anche tre, quattro gemelli per soddisfare le perverse ricerche di Mengele sull’eugenetica. A dispetto di una ricostruzione storica troppo “romanzata”, l’autrice delinea con maestria il rapporto fra Stasha e Pearl – e questo è uno dei pregi del libro - dando particolare risalto agli aspetti psicologici delle gemelle ritratte nei momenti di malinconia o di nostalgia per la famiglia perduta, senza tralasciare gli aspetti resilienti del loro carattere che saranno determinanti per non soccombere alle crudeltà di Mengele. Attorno alle sorelline Zamorski, forti dell’affetto e della complicità che le unisce, si muove un’umanità sofferente che cerca di ritagliarsi uno spazio per sopravvivere come Bruna dalla pelle diafana e dal cuore generoso e combattivo “con capelli bianchi che le accendevano la schiena come l’inverno”, o Feliks che ritorna profondamente segnato nel corpo e nell’anima dagli esperimenti del medico nazista. C’è anche Peter “che non aveva un gemello e non esibiva nessuna delle consuete anomalie o deviazioni genetiche che di norma assicuravano la salvezza” ma il suo aspetto ariano gli aveva procurato i discutibili favori di Mengele, aprendogli le porte del famigerato Zoo. Nei giorni che precedono il crollo del Terzo Reich e l’arrivo delle truppe alleate, durante un concerto organizzato da Mengele, Pearl scompare senza lasciare traccia e da quel momento Stasha, che non vuole credere che la sorella sia stata uccisa, continua a cercarla disperatamente perché come può continuare a vivere senza l’altra parte di sé? Il romanzo che si snoda attraverso le voci alternate delle due gemelle ci porta nella seconda parte a essere testimoni degli abissi del Male perpetrato ai danni della giovane Pearl rinchiusa in una gabbia e salvata da un soldato russo e, nel contempo, a seguire con trepidazione Stasha che all’arrivo degli alleati fugge dal campo di sterminio insieme a Feliks per mettersi alla ricerca della sorella attraverso una Polonia post bellica devastata dai bombardamenti. Dopo la lettura dell’eccellente libro di Lucette Matalon Lagnado e Sheila Cohn Dekel, “Children of the Flames”, Affinity Konar è rimasta colpita dalle storie di quei bambini che avevano trovato il modo di aiutarsi a vicenda per sopravvivere dimostrando una forza d’animo sorprendente e ha sentito come un dovere, una missione scrivere un romanzo che desse voce alle vittime dell’Olocausto. Pur avvalendosi di una scrittura ricercata e a tratti poetica l’esordio narrativo di Konar, accolto positivamente dalla critica americana, non convince del tutto per le descrizioni di alcuni contesti troppo avulsi dalla realtà e per la ricostruzione storica degli eventi che tende a privilegiare una visione più “romanzata” che rigorosa.
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