Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 19/01/2018, a pag. 24 con il titolo 'Ecco la storia di Moshe, il soldato che salvò gli orfani della Shoah' l'intervista di Matteo Sacchi a Sergio Luzzatto.
Sopravvivere alla furia nazista che ha provocato la Shoah non era cosa da bambini. Anzi. I bambini erano destinati sistematicamente a una immediata eliminazione. Eppure alcuni di loro ci riuscirono. E, quasi sempre, si ritrovarono orfani dispersi in una Europa devastata. Per molti la sola speranza di ricostruirsi una vita era raggiungere la Palestina, il nascente Israele. Settecento ce la fecero, attraverso l'Italia, grazie alla caparbietà di un uomo: Moshe Zeiri. Nel 1945 creò un orfanotrofio a Selvino, nella Bergamasca. Si prese cura di questi ragazzi, in fuga dall'Europa orientale, e poi li aiutò a partire in cerca di una seconda vita, per lo più clandestinamente, verso la Palestina. Una storia rimasta sepolta per decenni e che ora lo storico Sergio Luzzatto racconta nel suo nuovo saggio: I Bambini di Moshe. Gli orfani della Shoah e la nascita di Israele (Einaudi, pagg. 394, euro 32). Ne abbiamo parlato con lui.
La copertina (Einaudi ed.)
Professor Luzzatto, come è nato il libro? «Io stesso della vicenda di Moshe Zeiri, sino a qualche anno fa, non sapevo nulla. È stata una storia che, in un certo senso, mi è venuta incontro. Non era una personalità conosciuta, ma mi sono reso conto che era una storia davvero particolare. I bambini di Moshe sono in un certo senso dei sopravvissuti due volte. L'anagrafe della Shoah condannava i bambini all'eliminazione. In una valle della bergamasca una colonia alpina fascista è diventata una colonia/orfanotrofio ebraica per i sopravvissuti: mi è sembrato un evento eccezionale. Nella mia mente Selvino, se posso usare una metafora, ha preso la forma del collo di una clessidra».
Sergio Luzzatto
In che senso? «Il lato alto della clessidra è l'Europa Orientale, le terre di sangue dove l'ebraismo europeo è stato spazzato via. Selvino, l'orfanotrofio creato da questo soldato membro in una compagnia dell'esercito inglese composta da volontari ebrei provenienti dalla Palestina, è stato il punto di passaggio per i granelli che si erano salvati da quell'orrore, verso un altro mondo ebraico: il nascente Israele. Io ho voluto raccontare questa storia».
Lei narra le vicende di alcuni di questi bambini, prima e dopo il passaggio da Selvino. Quello che forse non ci si aspetterebbe sono le difficoltà che hanno incontrato nell'inserirsi nel mondo dei kibbutz... «Fu un percorso non facile. Esistevano problemi materiali, gli inglesi bloccavano gli arrivi delle navi. Alcuni dei ragazzi di Moshe, dopo un viaggio clandestino, finirono nei campi di concentramento britannici. Non erano i lager, ovviamente, ma fu di nuovo un'esperienza dura, di prigionia... E poi gli stessi coloni ebrei, i cosiddetti sabra, avevano delle perplessità sul materiale umano che arrivava dall'Europa. In Palestina era nato un modello di ebreo diverso, meno intellettuale, muscolare, dedito al lavoro agricolo e pronto a difendersi col fucile. I bambini che arrivavano dall'Europa avevano il mito della Palestina, ereditato spesso dalla cultura familiare e potenziato dalla propaganda sionista. Ma avevano avuto l'esistenza devastata. Per certi versi erano dei vecchi, delle vittime integrali...».
È per questo che Moshe Zeiri, a Selvino, li sottopose ad una formazione per certi versi molto dura? «Sì, ricevettero un addestramento paramilitare: venne insegnato loro un mestiere manuale, indispensabile nella condizione di povertà materiale di molti kibbutz. Zeiri insisteva molto anche sull'utilizzo dell'ebraico al posto dello yiddish, l'unico linguaggio che univa molti di questi bambini di provenienza diversa. Non fu un passaggio facile. Quando poteva, insisteva anche perché prendessero un nome biblico. Era simbolico della loro rinascita. Alcuni però si rifiutarono: era un'ulteriore perdita di identità. Zeiri lo faceva con le migliori intenzioni. Sapeva come sarebbe stato l'ambiente a cui sarebbero andati in contro una volta arrivati in Palestina e, come scriveva a sua moglie, aveva paura che non ce la facessero».
Invece... «Invece ce la fecero. Rifiorirono, si adattarono. Molti combatterono anche nella guerra civile contro gli arabi. A lungo il contributo dei ragazzi arrivati dall'Europa in quello scontro è stato sottostimato. Però negli ultimi anni la storiografia lo ha riesaminato. Si dimostrarono ottimi soldati anche se questo li precipitò in una nuova spirale di violenza. Ho chiuso il libro citando una frase di uno di questi ragazzi pronunciata molti anni dopo e rivolta a uno dei suoi figli: Ascoltavo il tuo respiro, e mi dicevo: mio padre non ha potuto proteggermi ma io ti proteggerò. E baciavo il mio fucile, perché quel fucile era il fucile della vita. Rende bene l'idea del prezzo che hanno pagato».
Nella prima parte del libro Lei lascia capire quanto fosse diffuso l'antisemitismo anche prima dell'ascesa del nazismo. Oggi si ha la sensazione di un antisemitismo di ritorno. Ha dei legami con quello di allora? «L'antisemitismo di oggi è secondo me più legato all'ignoranza e all'incapacità di trasmettere certi valori. Si parla molto di Shoah, sino alla saturazione, ma non si è capaci di far capire cos'è stata. E poi esiste un antisionismo che appiattisce temi complessi. L'equazione Israele forte, palestinesi deboli si trasforma, in una sensibilità accresciuta, anche giustamente, verso i palestinesi. Ma se non c'è capacità di riflessione, si trasforma in un movente per posizioni antistoriche. Come il non volere le bandiere della brigata ebraica alla sfilata il 25 aprile».
L'idea di Gerusalemme capitale di Israele peggiora le cose? «Mi pare un'evidenza, visto che negli accordi di Oslo si è evitato di porre la questione in questi termini. Ma io sono uno storico non mi occupo di questo...».
Un aspetto particolare del suo libro sono le fotografie. «C'è stata anche una Shoah degli oggetti. Sono state cancellate non solo le persone ma le loro cose. Le tracce fotografiche che sono sopravvissute per questi ragazzi erano fondamentali. Mi è sembrato importante riproporre anche queste tracce visive».
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