Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 18/01/2018, a pag.I con il titolo "Il Mohammed amato da Trump" l'analisi di Daniele Raineri.
Daniele Raineri
Quando due settimane fa è uscito Fire and Fury – il libro del giornalista americano Michael Wolff che racconta da dentro la Casa Bianca molto disfunzionale di Donald Trump – nel giro di due giorni è spuntata su internet una copia pirata tradotta in arabo, in formato pdf (circolava molto, era il terzo risultato su Google in arabo: an Naar wal Ghadab). Una gran parte del medio oriente è in accelerazione e questo vuol dire che c’è sete di conoscenza e di informazioni rapide e che c’è voglia di restare allo stesso passo del resto del pianeta. In particolare, quel libro americano pieno di gossip politico contiene anche sette pagine (su 260) sul rapporto tra il clan Trump e il principe trentaduenne Mohammed bin Salman, erede al trono dell’Arabia Saudita, che è il regno più conservatore, immobile e retrogrado della regione ma in questo momento è in mezzo a una stagione di cambiamenti storici. Si dice, ma non c’è prova, che sia stato il governo del Qatar a far tradurre in fretta e furia il libro in arabo, a tagliare i passaggi non essenziali – da 260 a 120 pagine – e a buttarlo su internet per mettere in cattiva luce i sauditi. E’ una legge non scritta del medio oriente: dietro ogni fatto pubblico rilevante c’è sempre il sospetto di un complotto. Wolff scrive che Trump ha anche in politica estera un approccio da showman: è necessario tagliare corto, evitare le complessità, tenersi sul semplice, essere schietti, diretti e veloci. Il mondo non è più una scacchiera tridimensionale su cui meditare e prendere rare, difficili decisioni.
Donald Trump con Mohammed Bin Salman
Il fatto stesso che Trump abbia vinto le elezioni è per lui la prova evidente e definitiva che tutti i suoi predecessori, e tutte le loro corti di esperti pieni di sussiego, quindi Obama ma anche Bush, non avevano capito nulla. Il mondo è molto più semplice da gestire di come dicevano loro: ci sono le potenze che stanno con noi, le potenze che non stanno con noi e infine quelli che non sono potenze – questi ultimi si possono ignorare o sacrificare. E’ una visione del mondo da Guerra fredda, ma questo non è che sia per forza un male: dopotutto, pensa Trump, è proprio durante la Guerra fredda che l’America era al massimo del suo splendore. Make America Great Again. Trump affida al genero Jared Kushner il compito di mettere in pratica questo approccio alla politica internazionale. Il fatto che la missione cada sul genero, e non sul dipartimento di stato americano che esiste apposta per fare queste cose, è per Trump e per molti dei suoi interlocutori arabi un fatto positivo e non un difetto. Kushner è lì perché è di famiglia, e questo vuol dire che sarà sempre lì: i segretari di stato passano, i familiari – almeno in teoria – restano. Inoltre Jared ha avuto il ruolo per quello che è, per ragioni di sangue, non per le idee che ha: non ha visioni del mondo per cui vuole combattere, non ha autonomia, è il corriere ideale. I primi dossier internazionali a essere testati da Trump e Kushner sono stati quattro: Messico, Canada, Cina e Arabia Saudita.
Con il Messico è andata male, Canada e Cina se la sono cavata meglio perché hanno compreso che con un po’ di adulazione si possono ottenere grandi risultati, ma sono stati i sauditi a fare punteggio pieno con il clan Trump. Come in questi giorni possono leggere milioni di arabi, dalle sponde dell’Atlantico al Golfo persico, Trump vede in medio oriente soltanto quattro grandi protagonisti: Israele, Arabia Saudita, Egitto e Iran. Sa che l’Iran è il nemico, perché così gli è stato spiegato, e quindi vuole unire i primi tre contro il quarto. Una volta che avrà fatto questo, ritiene che sarà molto più facile ottenere anche la pace con i palestinesi. Prima o poi sarà costruita un’ambasciata americana a Gerusalemme, intanto l’annuncio l’ha già fatto. Fine della questione mediorientale. In questo contesto, l’affinità tra il clan di Donald Trump e di Mohammed bin Salman (spesso indicato con la sigla MBS) è esplosiva. Entrambi sono arrivati a sorpresa ai vertici dei loro rispettivi sistemi di potere, e portano destabilizzazione e incertezza. Entrambi non sono mai usciti dai loro paesi per studiare o lavorare, pur occupando posizioni privilegiate. Entrambi infine hanno una concezione molto lineare di come condurre le loro relazioni: se tu fai un favore a me, io faccio un favore a te. Non conta che Trump sia il presidente americano che più si è pronunciato contro l’islam, non conta che i sauditi siano per l’elettore medio di Trump figure diaboliche alleate sia con lo Stato islamico (orrore) sia con Hillary Clinton (orrore doppio). Quello che contano sono i viaggi di Kushner nel regno, tre nel 2017, fatti con molta discrezione, e i lunghi colloqui notturni che l’ex imprenditore che ha studiato prima in una yeshiva ortodossa ebraica e poi a Harvard intrattiene con MBS, di cinque anni più giovane, erede al titolo di custode dei luoghi sacri dell’islam. In quei colloqui si decide una linea politica comune, o perlomeno una linea politica che non dia fastidio a nessuno dei due governi. Come con molte altre cose rivendicate da Trump, bisogna scremare la verità dalle vanterie. Wolff scrive che quando a giugno MBS è infine riuscito a eliminare dalla competizione per il trono saudita il suo diretto rivale ed è diventato l’erede ufficiale, il presidente americano ha celebrato in privato come fosse una sua vittoria personale e ha detto al genero: “Abbiamo piazzato al comando il nostro uomo”.
In realtà Bin Salman stava brigando da almeno tre anni per saltare tutta la lunga linea di successione dinastica che dopo la morte di re Salman rischiava di consegnare il regno a una sequenza di ottuagenari e che non gli lasciava speranze. E sappiamo che Trump tre anni fa non avrebbe mai immaginato che un giorno sarebbe stato seduto nello Studio Ovale della Casa Bianca a osservare gli intrighi di corte sauditi. In Arabia Saudita il sovrano di solito passa le consegne al fratello più anziano ancora vivo: il padre di Bin Salman, l’attuale re Salman, è salito al trono a ottant’anni, e prima di lui re Abdullah aveva preso il potere il giorno del suo ottantunesimo compleanno. E’ un sistema sclerotico che garantisce la stagnazione più cupa. Ma a partire dal 2015 il principe, il più giovane di sette figli, è riuscito a fare il vuoto attorno a lui e a neutralizzare tutti i contendenti. L’ultimo rivale era lo zio, Mohamed bin Nayef, efficientissimo ministro dell’Interno che le Amministrazioni americane ammiravano per la campagna di repulisti contro al Qaida che dopo il 2001 ha trasformato l’Arabia in un paese più sicuro dell’Europa. A giugno, alla fine del mese sacro di Ramadan, mentre tutto il paese era spossato, euforico e distratto, il principe ha fatto convocare lo zio nel suo palazzo. Le guardie gli hanno tolto il telefono, lo hanno chiuso in una stanza e gli hanno imposto di dimettersi e di lasciare il posto di erede al trono – dice un pezzo pubblicato dal New York Times. In un primo momento Bin Nayef ha rifiutato ma nelle ore successive della notte ha ceduto quando si è reso conto che non il suo fisico non avrebbe retto a lungo.
Oltre a essere diabetico, soffre ancora per i postumi di un attentato di al Qaida nel 2009. Il giorno dopo le dimissioni forzate di Bin Nayef, Bin Salman fece uscire un video di lui che gli baciava le mani in segno di rispetto e si diceva indegno di sostituirlo nella linea di successione e di ricevere tanto onore. Considerato che a giugno lo stratagemma ha funzionato, si capisce perché poi a novembre ha tentato di nuovo di fare la stessa cosa con Saad Hariri, il primo ministro del Libano. Breve digressione sull’attentato di al Qaida contro il principe Bin Nayef, perché è una vecchia storia che vale da sola un romanzo mediorientale. Da anni il ricercato numero uno di al Qaida in Yemen è Ibrahim al Nasiri, un costruttore di bombe molto abile che passa il suo tempo a sviluppare ordigni sempre più sofisticati e difficili da trovare. Fu lui a inventare tra le altre cose le bombe che potevano essere nascoste dentro le cartucce per stampanti e che erano in grado di abbattere un aereo in volo e quel piano fu scoperto proprio grazie alle spie del principe-ministro Bin Nayef in Yemen, che poi passò l’informazione agli americani. Nel 2009 ci fu un colpo di scena: il fratello minore di Al Nasiri accettò di consegnarsi ai sauditi e disse che aveva informazioni importanti che avrebbe confidato soltanto a Bin Nayef in persona. Quando fu al suo cospetto, fece esplodere una bomba che suo fratello – l’artificiere creativo – gli aveva nascosto nel retto e che per due giorni lo aveva costretto ad aspettare l’udienza da sdraiato, fingendo un malessere. Bin Nayef fu soltanto ferito, una sua guardia del corpo morì. Al Nasiri aveva sacrificato il fratello più piccolo per uccidere il ministro saudita, ma il piano era fallito. Per Trump il viaggio di maggio in Arabia Saudita è stato la chance perfetta di sottrarsi per un po’ ai titoli dei giornali sulla collusione con la Russia e sulle indagini che lo riguardano, e anche per fare un’uscita presidenziale lontano dall’America ma in territorio amico. MBS lo ha fatto ricevere con un’ac - coglienza trionfale, incluso un party con scimitarre e danze costato 75 milioni di dollari, e ha fatto tappezzare la strada che porta dall’aeroporto al palazzo reale con gigantografie di Trump assieme al re suo padre. Le fonti vicine alla Casa Bianca raccontano che ha molto apprezzato le attenzioni e che fosse incredulo del fatto che i giornali americani nel frattempo continuassero a rimanere abbarbicati alle notizie sull’indagine contro di lui invece che al successo geopolitico “senza precedenti” di cui era protagonista a Riad.
Il patto con i sauditi era stretto, Bin Salman è diventato “il nostro uomo” in via definitiva. E quando a novembre il principe ha fatto arrestare decine tra i principi e i businessman più in vista del regno con l’accusa di corruzione, il presidente americano ha risolto subito la questione via Twitter: “Ho molta fiducia in re Salman e nel principe ereditario dell’Arabia saudita, sanno perfettamente cosa stanno facendo… tra quelli che stanno trattando male c’è gente che ha munto quel paese per anni!”. Se si va a frugare nel sito di Breitbart, organo ufficiale dei trumpiani, si vede che nel 2017 l’Arabia Saudita è sempre stata raccontata con molto fair play. Trump e Bin Salman hanno in comune la visione semplificata del mondo e la tendenza a prendere decisioni impulsive. Se c’è aria di grandeur, tanto meglio. Nell’estate 2015, mentre era in vacanza nel sud della Francia, MBS ha visto ancorato in una baia e acquistato d’impeto il Serene, uno degli yacht più costosi del mondo di proprietà del miliardario russo Yuri Shefler, che ha fatto una fortuna con la vodka (c’è ancora qualcuno che crede davvero che i puritani pazzi dello Stato islamico prendano ordini dalla monarchia saudita?). Il Serene vale 409 milioni di euro ed è il secondo yacht del principe, perché due anni prima MBS ne aveva comprato un altro, il Pegasus, per cento milioni di euro. A dicembre una fonte dell’intelligence americana ha detto al Wall Street Journal che MBS è il compratore, schermato da un prestanome, del dipinto rinascimentale “Salvator Mundi” di Leonardo da Vinci per 368 milioni di euro, esposto ora in un museo di Dubai. Il punto è che queste decisioni impulsive rendono molto difficile dare un giudizio su MBS. In alcuni casi portano a disastri spettacolari. Il principe sogna di riportare l’Arabia saudita all’antica prodezza militare degli antenati, ma i risultati sono desolanti. L’operazione “Tempesta decisiva”, vale a dire la campagna aerea per bloccare l’espansione degli Houthi in Yemen a furia di bombardamenti, fu dichiarata conclusa nell’aprile 2015 dopo appena tre settimane. Ma dovette ricominciare subito, è chiaro che i sauditi avevano fatto male i conti e si trascina avanti ancora oggi mentre non c’è alcun segno di una svolta definitiva nella guerra, gli Houthi sono ancora al loro posto e mentre il paese precipita in una catastrofe umanitaria (per questo motivo ci sono petizioni a Londra per bloccare la visita di MBS al premier inglese Theresa May).
Anche la decisione di imporre un ultimatum al Qatar è finita in un nulla di fatto. Il governo di Doha non ha accettato le condizioni e c’è in corso una trattativa patetica che per ora non approda da nessuna parte. Il grande schema per costringere il premier libanese Hariri a dimettersi è fallito: dopo aver annunciato le sue dimissioni dall’Arabia Saudita e dopo avere detto di essere in pericolo di vita, il politico libanese è stato insediato di nuovo al suo posto a furor di popolo appena è tornato a Beirut. Altre decisioni di politica estera funzionano di più: il rapporto con l’America di Trump va molto bene (i cittadini sauditi non sono mai stati sulla lista dei viaggiatori a cui l’accesso agli aeroporti americani è proibito), con la Russia di Vladimir Putin anche, e le relazioni con Israele – che in teoria non ci dovrebbero essere – non sono mai state così forti, anche se discrete. Sul piano interno, viene da chiedersi se le decisioni impulsive di MBS non siano le uniche in grado di scardinare un sistema come quello saudita, prigioniero da decenni di carcerieri inflessibili come i predicatori ultra religiosi, l’economia basata sul greggio, le grandi famiglie che intrecciano politica e affari. MBS ha compreso che la maggioranza della popolazione saudita è troppo giovane per accettare ancora a lungo questo stato di cose e che presto la risorsa nazionale, il greggio, non sarà più così importante (tre giorni fa l’ad di Fiat Chrysler, Sergio Marchionne, ha detto che entro il 2025 la metà delle auto prodotte nel mondo sarà elettrica o ibrida). L’intersezione di questi due fattori è come un conto alla rovescia per il paese: se l’Arabia Saudita non evolve adesso, va incontro a un cambiamento traumatico. Così, la lista dei provvedimenti annunciati da Bin Salman per anticipare i tempi è strabiliante. La fine del divieto di guidare per le donne, che scatterà a giugno, sta producendo i primi effetti adesso: giovedì scorso a Gedda ha aperto il primo concessionario d’auto per sole donne, ci si aspetta un incremento rapido degli acquisti.
Venerdì sera, sempre a Gedda, per la prima volta uno stadio saudita dove si giocano le partite di calcio ha aperto i cancelli anche alle donne e la scena si è ripetuta in tutto il paese, alcune aziende stanno già vendendo veli con i colori delle squadre. E’ stata annunciata anche la riapertura dei cinema, sempre quest’anno. La polizia religiosa non ha più il potere di arrestare nessuno nelle strade, come invece poteva fare prima per violazioni della sharia coranica. Il governo ha annunciato un progetto per la costruzione di resort turistici sulla riva del mar Rosso, come quelli egiziani ma su scala gigantesca (il progetto parla di un’area grande quanto il Belgio) dove gli ospiti stranieri non saranno tenuti a rispettare le restrizioni islamiste – e suona sbalorditivo, se si pensa che al Qaida nacque nel 1991 come reazione alla presenza di militari americani, quindi infedeli, sul suolo saudita. L’ambasciatrice saudita mandata di recente a Washington è una donna. Oltre a questi annunci pubblici, che hanno un effetto diretto sulla vita dei sauditi, MBS è impegnato in lotte private e molto torbide con altri detentori di potere. I risultati saranno meno evidenti, ma potrebbero essere altrettanto importanti. Pochi giorni fa per esempio il governo ha detto che nazionalizzerà in parte gli asset del Bin Laden Group, uno dei conglomerati più forti del paese, che di fatto da mezzo secolo dice la sua nella vita politica del regno (Osama bin Laden era un figlio del fondatore). Entro l’anno – ma non è ancora sicuro – ci si prepara a un passo storico, la quotazione in Borsa di Saudi Aramco, il gigante di stato che si occupa del greggio. E tutti questi dossier sono stati aperti quando ancora MBS non è salito sul trono.
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