Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 18/01/2018, a pag. 31 con il titolo "Nell'ora più difficile Churchill (ieri e oggi) veste lo stesso abito", la recensione di Caterina Soffici, a pag. 30, con il titolo "Fratelli in fuga dai nazisti", la recensione di Alessandra Levantesi Kezich.
Ecco gli articoli:
Caterina Soffici: "Nell'ora più difficile Churchill (ieri e oggi) veste lo stesso abito"
La locandina del film, da oggi al cinema
Il sarto che ha vestito Churchill nella realtà, lo veste di nuovo nella fiction. Gli abiti di scena indossati da Gary Oldman nei panni di sir Winston in L’ora più buia (Darkest Hour), sono stati cuciti a mano e su misura come si conviene a un vero gentiluomo inglese da Henry Poole & Co. una delle famose sartorie di Savile Row a Londra, che nei giorni dell’uscita del film già candidato a diversi premi Oscar le espone in vetrina, sovrastate da una gigantesca bandiera britannica.
È un po’ lo spirito del tempo e Dio sa se gli inglesi, in questi anni di incertezza brexitara, non vorrebbero avere a Downing Street un personaggio come Churchill, che si prese sulle spalle il peso del mondo (parole della moglie Clementine) e nell’ora più difficile per l’Europa decise di combattere il nazismo per mare e per terra, costi quel che costi, fino all’ultimo uomo.
Questo spiega in parte anche il successo di film come Dunkirk e la popolarità di una serie tv come The Crown, dove si racconta l’ultimo periodo in cui la Bretagna fu davvero grande. Britannicità è la parola chiave, insomma. «Ma non siamo dei nostalgici - dice Simon Cundey, direttore e proprietario del negozio di Savile Row -. Piuttosto crediamo che le tradizioni siano dei valori da conservare e siamo fieri della nostra storia».
Entrare da Henry Poole è fare un passo nel vecchio Impero britannico. Odore di legno di cedro, moquette verde, boiserie alle pareti, rotoli di cachemire e stoffe tra le più raffinate, foto di Maharajà e teste coronate, attestati e lettere di ringraziamento, signori che si accomodano sui divanetti di pelle in attesa della prova. Fondata nel 1806, da oltre duecento anni servono anche la casa regnante britannica, per la quale ancora oggi tagliano e cuciono livree e abiti da cerimonia per cocchieri, autisti, maggiordomi e valletti. Churchill è stato solo uno dei celebri personaggi vestiti dalla sartoria dei re. Tra gli altri si ricordano Charles Dickens, il Dr Livingstone, lo zar di Russia Alessandro II, Bismark, De Gaulle, Hailè Selassie, l’imperatore giapponese Hirohito e Buffalo Bill.
Cudney è il pronipote dell’uomo che tagliava i vestiti a Churchill ed uno dei discendenti di Henry Poole. Nel nome della tradizione, la sartoria non ha mai cambiato di mano. «Churchill venne qui la prima volta nel 1906 e il vestito che il mio bisnonno gli fece era una divisa per la Trinity House. Anche il padre, sir Randolph Churchill era nostro cliente. All’epoca erano molto facoltosi, poi ci fu il tracollo finanziario».
Nella vasta aneddotica su Churchill, tra sigari giganti e frasi celebri, anche il capitolo vestiario non delude. E da Henry Poole ne hanno di succosi. Sir Winston era noto per non pagare i conti e ne aveva uno aperto anche con loro, come altri gentiluomini dell’epoca e teste coronate, tra cui il Principe di Galles. Alla fine degli anni Trenta il debito di Churchill ammontava alla bellezza di 197 sterline, circa 20 mila euro attuali. Racconta Simon: «Gli mandavano le fatture nella casa di campagna, ma non rispondeva mai. Quando divenne primo ministro nel 1940 il mio bisnonno gli inviò il conto direttamente al numero 10 di Downing Street. Lui si offese perché pensava che fosse un biglietto di congratulazioni per la nomina e da quel giorno non venne più». Tornò poi nel 1948, saldò il conto, i due fecero pace e si fece fare un vestito nuovo per l’incoronazione della regina Elisabetta II.
Nel centro del negozio c’è una bacheca di vetro e al centro è conservata una pezza del gessato grigio di Churchill immortalato nella famosa foto con il sigaro in bocca e il mitra in mano. Lo hanno battezzato per l’appunto «The Churchill» ed è simile a quello confezionato per il film e indossato da Gary Oldman che definiscono «abito da giorno da salotto». Escono dal numero 15 di Savile Row anche il doppio petto blu e una uniforme da Marina con i pantaloni bianchi indossati da re Giorgio VI, nel film impersonato da Ben Mendelsohn.
All’epoca i vestiti venivano recapitati a casa avvolti in carta velina crespata, in una scatola grigio perla o verde scuro, con il blasone dorato di Herny Poole. Adesso viaggiano in più pratici portabiti con la zip. Ma il tempo per cucirne uno è lo stesso.
«Uno dei nostri tagliatori è volato a Los Angeles per la prima misurazione. Poi dopo due settimane quando Gary Oldman era a Londra è venuto a fare la prima prova. È entrato in negozio e il sarto che l’aveva incontrato sul set in America non l’ha riconosciuto senza il pesante trucco da tre ore cui si sottoponeva ogni mattina per diventare Sir Winston». Dopo quattro settimane e altre due prove l’abito era pronto. A cucirli una schiera di giovani sarti e tagliatori, che lavorano al piano seminterrato del negozio e sono visibili dalla strada. Se li saluti, alzano la mano e fanno il segno della V per Vittoria.
Alessandra Levantesi Kezich: "Fratelli in fuga dai nazisti"
Alessandra Levantesi Kezich
La locandina di un film, come il libro da diffondere e far conoscere
Portato sullo schermo nel 1975 da Jacques Doillon, il libro autobiografico di Joseph Joffo (classe 1931) torna ora nella versione firmata dal canadese Christian Dugay, regista di esperienza televisiva che con il film Belle & Sebastien aveva dimostrato una sua particolare sensibilità per il mondo infantile/adolescenziale. E bisogna dire che, soprattutto nell’imminenza del Giorno della Memoria, è impossibile non rimanere toccati dall’epopea dei due fratelli, uno quattordicenne l’altro (Joffo) bambino, che seguendo le indicazioni dei genitori attraversano a piedi o a bordo di improvvisati mezzi la Francia occupata dai nazisti per raggiungere la zona libera del Sud, dove è previsto si ricongiungano al resto della famiglia.
Raccontata ad altezza di sguardo dei ragazzini protagonisti, l’avventura si trasforma in un percorso di formazione e concede allo spettatore persino qualche momento picaresco, nonché il sollievo di constatare l’esistenza di esseri umani degni, capaci di rischiare per proteggerli. Ma su tutto incombe l’ombra nera di un antisemitismo feroce, meticolosamente impegnato alla distruzione di una razza; e il percorso è gravido di pericolo e stenti: freddo, terrore di venir scoperti, l’umiliazione di dover negare la propria appartenenza religiosa, la paura di non riuscire a rivedere i propri cari. E tutto questo per colpa della follia e la crudeltà al potere.
Grazie a due interpreti credibili e deliziosi, soprattutto il Dorian le Clech che impersona Joffo,il film non scade mai nel sentimentalismo facile; e, anche se a volte ammorbidisce troppo i toni, mantiene una sua delicata forza di denuncia e di memoria. La scena che turba di più è quella in cui il padre, molto ben incarnato da Patrick Bruel, simula un interrogatorio nazista incalzando il piccolo Joseph con la domanda “sei ebreo?”, schiaffeggiandolo per fargli capire che, solo tradendo se stesso, non si tradirà.
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