Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 10/01/2018, a pag. I, con il titolo "La guerra dei sette anni" l'analisi di Daniele Raineri
Daniele Raineri Terroristi Isis
Fuck HTS, tutto il mondo era con noi, quando sono arrivati loro abbiamo perso. Hanno distrutto la nostra rivoluzione. Fuck them”. Basterebbe questa frase detta al Foglio da una fonte civile a Idlib (che sarà meglio non identificare per ragioni di sicurezza) per spiegare cosa succede in questi giorni nella parte più grande della Siria ancora fuori dal controllo – non si sa per quanto – del presidente Bashar el Assad (eccetto le ampie zone in mano ai curdi, ma quelle sono un’altra storia). Il bersaglio delle invettive della fonte a Idlib è HTS, sigla di Hayat Tahrir al Sham, l’organizzazione per la liberazione della Siria, denominazione molto neutra per una fazione armata che invece è la diretta erede di Jabhat al Nusra, quindi della divisione siriana di al Qaida. HTS è il frutto di un ragionamento sbagliato e perverso fatto dai rivoluzionari siriani nella prima fase della guerra civile tra il 2011 e il 2012 quando ancora erano la forza maggioritaria, che può essere riassunto così: sul breve termine ci conviene tenerci alleati questi uomini che si esaltano con l’ideologia di al Qaida perché combattono bene e perché se facessimo la guerra anche contro di loro perderemmo forze preziose mentre siamo impegnati contro l’esercito di Assad, poi sul lungo termine si vedrà. Quel “si vedrà sul lungo termine” costerà loro la guerra e a meno di imprevisti incredibili consegnerà la vittoria proprio al regime che volevano abbattere. Tre giorni fa una mano ignota ha messo su internet un video di trenta secondi da dentro un villaggio presidiato dai ribelli nella regione di Idlib, un foglietto di carta davanti alla lente della camera dice che il filmato è stato girato dall’istikhbarat al quat al nimr, l’intelligence delle Forze Tigre, vale a dire il reparto scelto degli assadisti che apre la strada agli altri reparti. Quando spunta il nome delle Forze Tigre vuol dire che il governo siriano ha cominciato un’offensiva per riprendersi un pezzo importante di territorio. Ieri un altro video anonimo con lo stesso messaggio è uscito da Saraqeb, nel cuore della regione. Si tratta di un trucchetto psicologico, per aumentare la pressione e il clima di assedio e paranoia che a Idlib è molto forte.
Idlib, Siria
Le Forze Tigre sono un nome conosciuto da tutti nel paese e così fanno credere di essere già ovunque, anche decine di chilometri dietro le linee nemiche. E’ il contrario di quanto succedeva fino al settembre 2015, quando erano i governativi a essere logorati dal sospetto che il nemico fosse già tra loro e che stesse per prendere il sopravvento da un momento all’altro. Ora che lo Stato islamico è stato sconfitto o come minimo gravemente menomato nella parte orientale della Siria grazie ai 14.567 raid aerei americani (è un dato aggiornato al 5 gennaio) e grazie alle forze curde alleate con Washington che hanno affrontato le battaglie più gravose del conflitto – dalla resistenza a Kobane nel 2014 alla liberazione di Raqqa nel 2017 – il governo di Damasco ha le mani libere per occuparsi della riconquista dell’enclave di Idlib e in questo modo per portarsi più vicino al compimento di una promessa fatta da Bashar el Assad, che nel 2016 disse che avrebbe ripreso tutta la Siria shibr shibr: pollice per pollice. Le forze assadiste avanzano con rapidità per ora nella parte orientale della regione di Idlib, hanno preso quattordici villaggi in sequenza e grazie a una manovra a tenaglia stanno per isolare un grande spicchio di terreno. Non importa se il resto della regione sarà molto più difficile da controllare (immaginate un paio di Strisce di Gaza affiancate), di spicchio in spicchio le forze di Assad vogliono arrivare al confine turco, fedeli all’unico grande principio che governa la guerra civile in Siria: è la realtà sul terreno a decidere come vanno i negoziati e non il contrario. Contro di loro c’è un nugolo di fazioni male assortite che in queste ore si rimpallano l’accusa di avere ceduto terreno al nemico e che hanno come difetto comune quello di non avere mai sconfitto gli estremisti di HTS. HTS non ha mai raggiunto nemmeno un decimo delle dimensioni spaventose dello Stato islamico – che all’apice del suo fulgore governava l’est della Siria e una larga porzione dell’Iraq – ma a suo modo è stato una creatura persino più dannosa per l’opposizione. I gruppi armati che fanno la guerra ad Assad riuscirono a riconoscere la natura essenzialmente suicida e sadica dello Stato islamico, furono i primi a inventare quel nome dispregiativo “Daesh” che oggi è usato nelle cancellerie occidentali e a fine 2013 (molto tardi) ingaggiarono una breve guerra per cacciarlo fuori dalle zone sotto il loro controllo – dove il Daesh si era insediato con comodo trovandole già liberate dal controllo governativo, come un organismo parassitario che sfrutta il lavoro altrui.
Ma i rivoluzionari non sono mai riusciti a fare altrettanto con HTS, non sono mai riusciti a espellerla come un corpo estraneo, anzi chi ci ha provato è finito sopraffatto e senza più armi oppure blandito e neutralizzato. In cambio quelli di HTS (che allora si facevano chiamare Jabhat al Nusra ed erano di al Qaida) si sono sempre guardati dal prendere le distanze dagli altri gruppi e dal dichiararli murtaddin, quindi apostati meritevoli di morte (come facevano i fanatici furiosi dello Stato islamico). Avevano compreso fin da subito, i qaidisti, che questa rivoluzione siriana fatta da mille fazioni che si fondono e poi si separano e poi cambiano nome in un infinito moto brulicante che soltanto pochi specialisti riescono a tenere d’occhio è lo stagno ideale in cui sguazzare, come raccomandava un grande esperto di insurrezioni, il cinese Mao Zedong (che diceva: il popolo è lo stagno, la guerriglia dev’essere come un pesce che nuota in quello stagno). Poi negli ultimi due anni da gruppo che sfruttava il suo essere in mezzo agli gruppi come copertura Jabhat al Nusra è diventata il potere dominante a Idlib. E’ passata attraverso un paio di passaggi evolutivi per provare a togliersi di dosso il marchio di al Qaida davanti all’opinione pubblica, prima cambiando nome e raccogliendo molte altre fazioni sotto il simbolo di Jaysh al Fath, “l’esercito della Conquista”, e poi tramutandosi in HTS. Tutte metamorfosi che la gente di Idlib e gli osservatori esterni hanno accolto con molto scetticismo, intuendo che al di sotto della facciata la sostanza era rimasta la stessa. Il problema per gli anti Assad è che la presenza nella regione di Idlib dell’elemento qaidista funziona come un elemento di repulsione fortissimo che inibisce ogni eventuale appoggio dall’esterno. Nessun governo, per quanto schiumi di ostilità al solo pensiero di Assad presidente per sempre a Damasco, desidera essere invischiato in una campagna militare dove in prima fila c’è anche al Qaida a combattere. La percezione da fuori, nell’opinione pubblica, è che le persone che vivono nella regione di Idlib in fondo sono tutte così, filo al Qaida – più di due milioni secondo i dati delle Nazioni Unite. Non è così, ma i giornalisti che potrebbero chiarire la situazione non possono mettere piede in quella zona per timore dei rapimenti.
Questo è l’esempio perfetto del monumento alla stupidità e all’auto-sconfitta costruito in questi anni dai ribelli di Idlib: essere il bersaglio di una campagna militare molto violenta da parte del governo siriano e dei suoi alleati, Russia e Iran, che include l’uso di armi chimiche sui civili (come confermato dalle Nazioni Unite) e la distruzione sistematica degli ospedali (come confermato da tutte le organizzazioni mediche internazionali che hanno provato a lavorare in quella zona), eppure non poter invitare nessun giornalista internazionale a coprire quegli eventi perché potrebbe essere sequestrato da qualche gruppo. Quod Deus perdere vult, dementat prius: Dio toglie la ragione a quelli che vuol fare perdere. Se mai ci sarà una statua per i rivoluzionari siriani, dovrebbe essere quella di un combattente che si spara in un piede. E i negoziati ufficiali? Tra poco comincerà il nono round dei negoziati di Ginevra e anche questo sarà totalmente inutile: delegati che non rappresentano davvero l’opposizione chiederanno ai delegati assadisti di discutere quando Assad, che sta vincendo sul campo, lascerà il potere. Ma non glielo chiederanno direttamente, perché dopo otto round non si sono ancora parlati senza la triangolazione di un mediatore, come nota l’analista americano Sam Heller, che li segue e scrive analisi sempre più desolate. Il segretario di stato americano Rex Tillerson in un intervento pubblicato il 27 dicembre sul New York Times ha scritto che “siamo certi che la fine di questi negoziati produrrà una Siria liberata da Assad e dalla sua famiglia”, e questo rende bene la misura del suo distacco dalla realtà. E’ quasi certo che Tillerson non vedrà da segretario di stato la fine dei negoziati di Ginevra. Nella notte tra il 5 e il 6 gennaio uno sciame di tredici droni ha attaccato la più grande base russa in Siria a Hmeimim, la stessa da dove Vladimir Putin e il presidente Assad hanno annunciato il terzo ritiro del contingente russo l’11 dicembre – finto come i primi due. I droni erano guidati via GPS, secondo il ministero della Difesa russo, quindi non a vista, avevano un’autonomia di volo di 100 km e quando sono arrivati sopra la base hanno lasciato cadere le piccole granate che portavano sotto le ali. C’è da notare che i russi per respingere l’attacco hanno sparato almeno tre missili Pantsir, quindi sono stati costretti a usare un sistema che costa quindici milioni di dollari a unità. Le immagini mostrate lunedì dal ministero della Difesa russo sono di tre droni caduti al suolo ancora più o meno intatti. E’ stato il terzo attacco contro gli aerei di Mosca in dieci giorni (a Capodanno erano morti due soldati), non era mai successo prima e questo vuol dire che la battaglia per Idlib potrebbe essere ancora più complessa e cruenta di quanto si crede.
La Difesa russa ieri ha detto che la serie recente di attacchi con i droni per essere realizzata aveva bisogno del supporto tecnico di qualche nazione che possiede la tecnologia per la navigazione satellitare e ha notato la “strana coincidenza” della presenza di un aereo militare americano in volo sul Mediterraneo nelle stesse ore. Per alimentare una teoria del complotto non si butta mai via nulla. Non si sa ancora quale fazione siriana abbia lanciato lo sciame di droni contro la base militare, ma si tratta di una tecnologia tutto sommato rudimentale che potrebbe essere applicata da un gruppo terroristico contro un bersaglio civile. Per esempio, uno sciame uguale è in grado – in teoria – di partire dalla campagna umbra e arrivare sopra San Pietro la mattina di Pasqua. La Siria è stata anche un immenso laboratorio di prova per le operazioni militari e terroristiche degli anni che verranno. In questi giorni, dice la fonte del Foglio a Idlib, colonne di migliaia di rifugiati stanno scappando dal sud della regione dove avanza il fronte della guerra per spostarsi a nord, dove però non troveranno una soluzione definitiva. Per descrivere le scene che vede usa la parola al nakba, la catastrofe, che di solito gli arabi associano alla nascita di Israele nel 1948 e questo dovrebbe rendere l’idea delle forze che si stanno comprimendo in quella regione. I gruppi armati perderanno, perché nessuno può prevalere al settimo anno di una guerra civile brutale senza aiuti dall’esterno. Il fronte di Assad ha due sponsor determinati come la Russia e l’Iran. Quelli di Idlib, grazie alla mossa geniale (sarcasmo) di associarsi al marchio di al Qaida, non hanno nessun appoggio. Dopo sei anni, anche quella parte di Siria tornerà di nuovo sotto il il presidente Bashar el Assad. E dopo? Alcuni esperti dicono che di fatto Assad sta conquistando territorio, ma non sta riconquistando popolazione, nel senso che la percentuale di siriani sotto di lui rimane più o meno stabile, gli altri preferiscono andare e restare all’estero, oppure spostarsi in altre zone. Altri dicono che in molte zone della Siria la spossatezza da guerra rende tutti malleabili, non importa se tornano i soldati di Assad, l’importante è che non si combatta più. Al governo di Damasco conviene che le zone più ostili si svuotino della popolazione, così non potranno appoggiare l’op - posizione. I tre milioni di siriani in Turchia e il milione di siriani in Germania sono quattro milioni che l’apparato di sicurezza assadista non dovrà tenere sotto sorveglianza quando la guerra finirà. C’è da tenere in considerazione che le promesse di pace troppo rapide sono poco realistiche, tutte le conquiste militari in Siria si basano su un un “effetto marea”, arriva un numero spropositato di forze, conquista un posto ma poi lo deve lasciare, per andare a coprire altri luoghi.
Come gli americani scoprirono a proprie spese durante la guerra in Iraq, “to clean”, ripulire un villaggio, è molto diverso da “to hold”, continuare a tenerlo sotto controllo. La regione di Idlib in questo senso è difficile: una vasta campagna alberata, con migliaia di piccoli villaggi sparpagliati e connessi male da stradine, non è un caso che laggiù ci siano posti che non vedono soldati di Assad dal 2011. Secondo i dati Onu, il 44 per cento delle persone nella regione di Idlib è già sfollato da altre regioni, per esempio è fuggito da Aleppo dopo la sconfitta degli anti assadisti di due anni fa. Idlib ha funzionato come parte essenziale di tutti gli accordi di riconciliazione e di tutte le tregue locali negoziate dal governo con i ribelli siriani. Ogni volta che una zona assediata accettava di arrendersi, Damasco permetteva ai combattenti irriducibili che lo volevano di lasciare la zona con le loro armi leggere a bordo di autobus verdi – che in Siria sono diventati il sinonimo di capitolazione – e di raggiungere Idlib, la valvola di sfogo. Chi vuole resta e si sottomette, chi non vuole è imbarcato per Idlib. Viene da chiedersi cosa succederà quando non ci sarà più questa opzione perché anche Idlib sarà sotto il controllo di Assad. La grande ambizione di Damasco, che è riportare tutto il paese al 2010, non sembra prendere in considerazione il fatto che in questi anni il paese è cambiato in modo irrimediabile. La Siria era instabile già allora – altrimenti le proteste non sarebbero scoppiate – come sarà quando le famiglie degli uccisi dall’una e dall’altra parte dovranno condividere con gli uccisori gli stessi café, le stesse scuole, gli stessi negozi nelle stesse strade come facevano nel 2010?
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