'La psicoanalisi' di Enzo Bonaventura, a cura di David Meghnagi
Recensione di Cosimo Schinaia
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La copertina (Marsilio ed.)
Una vecchia storiella riporta il dialogo tra un nobile inglese e un suo ricco ospite straniero che, guardando l’immenso parco davanti al suo castello, gli aveva chiesto: «Ma come fate ad avere questi magnifici prati? Qual è il vostro segreto?» Il lord rispose: «Bisogna tagliare l’erba, innaffiare e rullare». L’ospite stava per intervenire, per constatare come fosse un trattamento abbastanza semplice, quando il lord soggiunse: «Va fatto tutti i giorni per almeno duecento anni». Quello che oggi ci sembra semplice, ovvio, scontato, poggia sulle spalle di giganti. Alcuni di questi giganti sono tuttora riconosciuti nel loro valore e nella loro grandezza, altri hanno bisogno che qualcuno ne ricordi l’impegno, la competenza, la grandezza. Oggi quel qualcuno è David Meghnagi che riporta alla nostra attenzione un autore, Enzo Joseph Bonaventura, e il suo testo La psicoanalisi, pubblicato alla vigilia delle leggi razziali del 1938, che, per le riflessioni epistemologiche che contiene, in alcune parti potrebbe essere scritto da un contemporaneo, sia per lo stile che per i contenuti.
David Meghnagi
Sconosciuto al grande pubblico e largamente ignorato tra gli psicologi e gli psicoanalisti, Bonaventura è stato uno dei più importanti studiosi e ricercatori in ambito psicologico e psicoanalitico italiano della prima metà del Novecento. Nato a Pisa nel 1891, si laurea in filosofia a Pisa nel 1913. Osteggiato da Gentile, non sostenuto da Padre Gemelli, nonostante anni di insegnamento e lavoro presso il Laboratorio Universitario di Psicologia a Firenze, e un elevato numero di qualificati articoli e monografie, non vince il concorso per la cattedra di Psicologia all’Università di Firenze, da cui viene cacciato in seguito alle leggi razziali del 1938. Si trasferisce in Israele e va a insegnare alla Hebrew University. Il 13 aprile 1948 Bonaventura muore tragicamente, vittima di un agguato al convoglio dell’Hadassah a Gerusalemme.. Suddiviso in dieci capitoli organizzati per temi e corredati di una nota bibliografica sulle opere di Freud e degli psicoanalisti più noti dell’epoca, il libro di Bonaventura si cimenta nel tentativo di presentate «obiettivamente» le idee di Freud, tenendole distinte dalle posizioni personali. Freud ambiva ad inserire la psicoanalisi nel novero delle scienze naturali, basandosi originariamente sulla teoria dei neuroni contenuta nel Progetto di una psicologia del 1895, opera non pubblicata e che, pur concepita nell’entusiasmo, fu presto ripudiata. Nello stesso modo, l’ambizione di Enzo Bonaventura è stata quella di inserire la psicoanalisi nell’ambito della psicologia generale, normale e patologica, pura e applicata, evitando «di celebrare come novità e prendere per ‘scoperte’ dei fatti già da tempo acquisiti dalle scienze». E ancora, scrive nell’introduzione: «se anche un giorno lontano la psicoanalisi dovesse apparire superata, o finisse con l’inglobarsi in una concezione più larga e comprensiva della vita psichica, le sarà sempre riconosciuto un posto d’onore nella storia della scienza per la ricchezza delle ricerche, per la fecondità delle ipotesi, per la vivacità delle discussioni provocate e sarà ricordata come uno dei più poderosi sforzi che siano mai stati tentati per affondare lo sguardo negli abissi dell’animo umano». Nobili e attuali parole, se si pensa alla concordanza/discordanza della psicoanalisi con gli studi neuroscientifici a proposito di diversi i fenomeni mentali.
Ricordo la scoperta della memoria implicita o procedurale e di quella esplicita o dichiarativa che ha valso il Nobel a Kandel e Greengard, le successive intuizioni di raccordo con la psicoanalisi di Mauro Mancia e la scoperta dei neuroni a specchio di Rizzolatti e coll., le cui ricerche hanno notevoli concordanze con i concetti di identificazione e proiezione. Alcune affermazioni di Freud, per esempio a proposito delle pulsioni, devono essere riviste in base al principio di codificazione indifferenziato di Von Foerster, per cui gli impulsi nervosi che giungono al cervello dalle differenti aree somatiche e dall’ambiente esterno, le variazioni dei livelli ormonali e i processi metabolici dell’organismo trasmettono soltanto l’intensità degli stimoli, cioè la frequenza degli impulsi e non «che cosa». Questi fenomeni quantitativi sono poi tradotti a livello cerebrale in fenomeni qualitativi, cioè in sensazioni, percezioni e stati affettivi che, a loro volta, determinano l’attivazione di «schemi d’azione» che sono specifici di ciascuna specie vivente. Tali schemi sono al servizio della conservazione della vita dell’individuo e della continuazione della specie. Con una certa approssimazione possiamo definire tali schemi d’azione come «istinti». Se la psicopatologia è arricchita e illuminata dalla psicodinamica, la psicodinamica ha bisogno essa stessa della psicopatologia. Bonaventura sembra anticipare la questione del recupero di quei rapporti e di quei raccordi che il comprendere della psicoanalisi ha talvolta smarrito, da un lato con la comprensione psicopatologica, dall’altro con le conoscenze che provengono dallo sviluppo della moderna neurobiologia della mente. Come ci ricorda Barale[1] (2001), alcuni decenni di psichiatria psicodinamica trionfante avevano creato l’illusione, nella seconda metà del secolo scorso, che potesse essere edificata una psichiatria psicoanalitica autosufficiente, con una sua propria psicopatologia. Non era stato così all’inizio; basti solo pensare al fittissimo dialogo con la psicopatologia bleuleriana in formazione che in nuce è presente, esplicito e implicito, nei primi lavori psicoanalitici in tema di psicosi, quelli di Karl Abraham del 1907 e 1908, in cui il problema del rapporto tra storia del soggetto, storia delle esperienze traumatiche e storia delle esperienze psicopatologiche, viene posto come un campo che entra in tensione, ma entro il quale nessun termine semplicemente «spiega» o riduce a se stesso gli altri; o alla prudenza metodologica con cui allora ci si guardava bene dal trattare le configurazioni psicodinamiche delle esperienze psicopatologiche come ipotesi etiologiche, come cause. Quel dialogo in nuce, con tutto l’arco delle questioni che conteneva, fu ben presto interrotto. Si ebbe così, soprattutto nei paesi anglosassoni, una psichiatria psicoanalitica spesso ingenuamente psicogenetista e senza psicopatologia, accanto ad una psicopatologia senza psicodinamica e ad una psichiatria organicista senza entrambe (psicodinamica e psicopatologia).
Grandi lezioni, come quella jaspersiana o, per altri versi, quella di Kurt Schneider furono sommariamente liquidate e banalizzate, come se l’inconscio funzionasse da passepartout conoscitivo. Nel vuoto del dialogo precocemente interrotto con la psicopatologia da una parte e con lo sviluppo della ricerca biologica ed empirica dall’altra, la psichiatria psicoanalitica dei decenni trionfanti ha così costruito il suo edificio. La confusione sempre più fitta tra configurazioni psicodinamiche ed etiologie, tra senso e causa, tra origine delle esperienze psicopatologiche e livelli psicodinamici sempre più primitivi che in esse potevano essere intravisti, tra psicopatologia e storia (ricostruita o, il più delle volte, semplicemente ipotizzata), poneva così nella psichiatria psicoanalitica le premesse per il suo successivo declino e per la sua attuale vertiginosa perdita di influenza nella psichiatria contemporanea. La comprensione psicodinamica sembra, come sempre, più in grado di intravedere le vicissitudini di alcuni snodi fondamentali dell’umano, piuttosto aspecifici, presenti in queste psicopatologie come in molte condizioni diverse, psicopatologiche e non, che di delineare percorsi specifici. Dal punto di vista etiologico, la costruzione-ricostruzione delle vicende interne delle singole storie personali, quando è possibile, lascia in genere ampiamente intatto il sentimento di un certo mistero sul perché, a partire da quelle condizioni, che in genere non hanno proprio nulla di specifico, si siano sviluppate proprio quelle storie, proprio quelle evoluzioni e non le molte altre possibili. Défaillances nella trasformazione attraverso la rêverie del flusso di elementi beta in alfa, o fragilità del Sé o processi di identificazione narcisistica non hanno alcuna specificità e si ritrovano, parimenti, nella storia e nel funzionamento mentale di tantissime patologie e di tantissime normalità. Insomma, una buona rivisitazione critica delle pretese etiologiche e autosufficienti del discorso psicoanalitico non sarebbe una brutta cosa per la psicoanalisi e probabilmente rafforzerebbe la percezione del valore della costruzione-trasformazione delle vicende interne che essa consente, sgombrando il campo da molti equivoci, come pare voglia avvertirci Enzo Bonaventura.