Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 08/01/2018, a pag.12 con il titolo "Gerusalemme, lo sdegno arabo è solo pubblico" l'analisi di Giordano Stabile.
Giordano Stabile
Gerusalemme, vista dalla Città vecchia
Perché i leader arabi criticano Trump su Gerusalemme, ma poi spingono la popolazione a riconoscerla come capitale di Israele?
I leader arabi proclamano il loro sdegno per il riconoscimento da parte di Donald Trump di Gerusalemme come capitale di Israele ma sotto banco cercano di ammorbidire la popolazione e spingerla ad accettare il dato di fatto. È quanto emerge, per esempio, da alcuni audio registrati dietro le quinte di un talk show egiziano, e venuti in possesso del «New York Times». Un ufficiale dei servizi segreti, il capitano Ashraf al-Kholi, «istruisce» gli ospiti prima del dibattito in tv: una guerra con Israele «non è nell’interesse nazionale dell’Egitto», i palestinesi, osserva, dovrebbero accontentarsi di Ramallah, dove ha sede l’Autorità nazionale, come capitale: «Che differenza c’è con Gerusalemme, in fondo?», chiede a ripetizione. Eppure, riflette, «noi, come tutti i fratelli arabi, siamo insorti». La ribellione delle capitali arabe è però soprattutto formale. Due giorni fa, di nuovo, un comitato ristretto della Lega araba, si è riunito ad Amman. Giordania, Egitto, Marocco, Arabia Saudita ed Emirati hanno ribadito che l’unica soluzione è quella «due popoli, due Stati» con una nazione palestinese che abbia Gerusalemme Est come sua capitale. Re Salman d’Arabia, uno dei leader arabi più influenti, ha condannato la mossa di Trump con parole nette. Ma dietro le quinte, come nel talk show, la realtà è diversa. All’inizio di novembre, un mese prima della dichiarazione della Casa Bianca, l’erede al trono Mohammed bin Salman ha convocato il presidente palestinese Abu Mazen a Riad e gli ha chiesto di accettare il suo piano, e un radicale ridimensionamento delle pretese territoriali: uno Stato in Cisgiordania, con capitale un piccolo sobborgo di Gerusalemme, Abu Dis. Lo stesso Abu Mazen ha raccontato l’episodio, secondo fonti palestinesi, a diplomatici arabi ed europei, e ha respinto la proposta. Ma il vecchio raiss è sempre più solo. Il fronte sunnita Egitto-Arabia-Emirati si è compattato in funzione anti-Iran, vede nell’alleanza con gli Stati Uniti il pilastro vitale per vincere la sfida con gli ayatollah per l’egemonia in Medio Oriente, e non è disposto a sacrificarla in una guerra per Gerusalemme contro l’alleato strategico di Washington, lo Stato ebraico. La «linea rossa», tracciata dal presidente Erdogan, vale sempre meno per gli arabi che in teoria dovrebbero essere in prima linea a difenderla.
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