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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
07.01.2018 Aharon Appelfeld e la tradizione ebraica
Commenti di Giulio Busi

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 07 gennaio 2018
Pagina: 23
Autore: Giulio Busi
Titolo: «Il superstite che sgranava le parole-Filosofia della Torah a viva voce»

Riprendiamo dal SOLE24ORE-DOMENICA di oggi, 07/01/2018, a pag.23/26, due interventi di Giulio Busi.

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Giulio Busi

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Il superstite che sgranava le parole

Aharon Appelfeld, il grande scrittore israeliano scomparso il 4 gennaio scorso a 85 anni, aveva un modo tutto proprio di intervenire in pubblico. Con mitezza, come in punta di piedi, e pure con l'autorevolezza di chi ha molto visto e molto capito. Quando parlava, lo faceva con voce bassa e pacata, scegliendo con cura le parole, quasi sgranandole, per distinguerle esattamente l'una dall'altra. Una lenta proprietàdi linguaggio, che lo distingueva nelle molte lingue che padroneggiava. Dal tedesco, la sua prima madrelingua, all'ebraico, in cui aveva scelto di scrivere tutte le proprie opere, e all'inglese, a cui spesso ricorreva negli incontri in giro per il mondo. Da bambino aveva appreso anche l'yiddish e l'ucraino, un'abilità, quest'ultima, che gli aveva salvato la vita, negli anni della persecuzione dell'annientamento. Nato a Zhadova, presso Czernowitz, nella Bucovina settentrionale, Appelfeld apparteneva allo straordinario mondo del giudaismo di cultura tedesca nell'Europa orientale. Già fiorente centro dell'Impero austro-ungarico, Czernowitz ha dato i natali, tra gli altri, a Paul Celan. Città di letterati, musicisti, poeti. E città di morte. Nel 1941, la madre di Aharonè uccisa dai nazisti,e per il piccolo, riuscito a fuggire da un campo di concentramento, in cui è stato internato assieme al padre, comincia una paurosa vita alla macchia. Girovago tra i boschi, alla mercé di prostitute e farabutti, Appelfeld esplora suo malgrado il mondo degli adulti. Soffre, osserva, ha paura. A volte gli sembra di non poter più uscire da quel labirinto - i tedeschi gli sono vicinissimi, la violenza è dappertutto. In altri momenti, l'umanità, anche quella dei delinquenti ed emarginati a cui è costretto a mescolarsi, sgorga spontanea, inarrestabile, misteriosa. Dalla «nera galleria chiamata guerra» riemerge adolescente, spaesato, vivo. Anche il padre è scampato, sebbene l'uno non sappia dell'altro. Si ritroveranno solo nel 1960. Un passaggio di alcuni mesi in Italia - «un meraviglioso oblio», lo chiamerà in seguito - poi l'emigrazione in Israele, e la faticosa riconquista di una normalità biografica. Ma può esserci davvero normalità, dopo tutto questo? La scrittura non cancella il passato. Lo può però rivisitare, schiudere, spalacare. Sulla pagina di Appelfeld, ritmata in prosa con la stessa meticolosa precisione delle sue presentazioni orali, sboccia un fiore scuro, delicato, prezioso. «Qui» è la vita quotidiana, la spinta a dimenticare. «Lì» è un umido sotterraneo dell'anima, da cui erompono immagini, brandelli di frasi, volti, odori, e l'acre sentore della morte. Nonostante la sua eleganza, lo stile di Appelfeld ha una forte materialità. Le parole sono membra, le frasi corpi, le pagine gruppi di figure in carnee ossa. In un'intervista rilasciata pochi anni fa, Appelfeld reagisce con secchezza - lui sempre così gentile - a un'osservazione della giornalista, Sophie Joubert, che vede nell'esilio e nello sradicamento motivi ricorrenti della sua opera letteraria. «Non è un motivo - è la risposta - ma una delle cose che mi accompagnano nella vita da quando ho otto anni». Considerato l'imperante ossequio al mercato, in cui tanti autori simulano oggi racconti confezionati solo per vendere - secondo le brave norme della scrittura creativa - una simile professione di autenticità può sembrare sorprendente. Non c'è nulla di troppo o di troppo poco in Appelfeld. Nulla è messo lì ad arte. O meglio, quello che giunge sulla pagina a stampa viene da «lì», dai boschi, dagli uomini di malaffare, dal pianto silenzioso delle vittime. Non per accondiscendere ai gusti del lettore, ma perché andava detto e scritto in quel modo, e non altrimenti. Anche Badenheim 1939, l'opera più celebre di Appelfeld, non si sottrae aquesta legge dell'essenzialità. La vita spensierata in una località di villeggiatura, sul ciglio della catastrofe, è molto più di un semplice apologo. E se Appelfeld racconta così, con apparente leggerezza, la vigilia dello sterminio, è perché lui, quella stessa leggerezza, l'ha macerata mille volte nei propri ricordi. Scegliere le parole, come isole di un mare sconosciuto. Poi percorrerle a una una, quelle isole, riunirle, ridirle. Solo chi è stato «lì» sa quanto sia difficile ritornarvi. E quanto necessario

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Filosofia della Torah a viva voce

Indecisione, senso di vuoto, confusione. Lo conosciamo tutti, l'attimo di stordimento prima di affrontare un esame, o di iniziare una lezione, quando ci sembra di non sapere più nulla, di avere dimenticato di colpo ciò che avevamo imparato con tanta fatica. Date, nomi e luoghi ci vorticano nella testa come una galassia di pianeti inarrestabili. Appena cominciamo a parlare, la situazione di solito migliora. Prendiamo confidenza, troviamo il nostro ritmo, il discorso fluisce, il mondo torna all'ordine. Da giovani pensiamo che a renderci insicuri, nell'imminenza di una prova, sia la paura di fronte al docente. Chi, in età matura, si trova a insegnare e a parlare in pubblico, sa che quel momento di tensione, simile all'esitazione di un ginnasta che stia per librarsi nel vuoto, è un mistero più profondo e universale della semplice fifa scolastica. Il passaggio dal discorso interiore a quello esteriore è un momento delicato e carico di attese. L'acqua della conoscenza fa fatica a sgorgare dall'anima. Potremmo chiamarla l'emozione dell'oralità. Un'emozione che ogni volta si ricrea, così come ogni discorso, veramente pronunciato, davanti a uditori in carne ed ossa, è diverso da tutte le conversazioni che l'hanno preceduto e da quelle che lo seguiranno. Oralità e carica intellettuale, insegnamento a viva voce e sapienza - di questo binomio si nutre la tradizione ebraica. Benché la trasmissione scritta della Torah sia importantissima, quello che fa di Israele una comunità vitale è, nella visione rabbinica, il possesso della tradizione orale. Trasmessa di bocca in bocca, insegnata viso a viso, da maestro ad allievo, guardandosi negli occhi e ascoltando una voce vera, che risuona in uno spazio fisico reale, questa Torah pronunciata dà movimento e autenticità alle frasi vergate con l'inchiostro, o comunque fissate con l'alfabeto. Giuseppe Veltri, nel suo ultimo volume sul rapporto tra sapere filosofico ebraico e cultura greco-latina, riflette sulla vicinanza tra una simile idea di attivazione verbale dell'insegnamento religioso e l'antagonismo platonico tra scrittura e vera sapienza. Nel Fedro, a proposito dell'invenzione della scrittura da parte del dio egizio Teuth, Platone mostra tutto il proprio scetticismo: «Lo scrivere ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà. Costoro cesseranno di esercitarsi la memoria perché, fidandosi dello scritto, richiameranno le cose alla mente non più dall'interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei». La sapienza, insomma, non la si scrive, e non c'è alfabeto o geroglifico che possa contenerla. Le lettere sono uno stratagemma che ci aiuta a fissare le nozioni. Solo il discorso che sgorga "dall'interno" può imprimere alle parole il sigillo dell'autenticità. Chi ha letto e ora sa, dica e insegni. E si faccia passare la paura.

Giuseppe Veltri:"Sapiena alienata. La filosofia ebraica tra mito, dtori e scetticismo" Aracne ed.

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