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Corriere della Sera Rassegna Stampa
07.01.2018 Donatella Di Cesare analizza la 'profondità' di nazismo/antisemitismo/razzismo oggi
Ma come la valutava quando era vice-presidente della Fondazione Heidegger, il filosofo di Hitler?

Testata: Corriere della Sera
Data: 07 gennaio 2018
Pagina: 14
Autore: Donatella Di Cesare
Titolo: «Lampi razzisti dalla Germania profonda»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA-LETTURA di oggi, 07/01/2018, a pag.14 con il titolo "Lampi razzisti dalla Germania profonda" il commento di Donatella DIi Cesare.

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Heidegger e Hitler in una caricatura

Si rimane ogni volta sbigottiti nel leggere i commenti di Donatella Di Cesare su nazismo, antisemitismo, razzismo ecc. in particolare tedesco. La Di Cesare è stata per anni vice-presidente della Fondazione tedesca per onorare la memoria di Martin Heidegger, il filosofo di Hitler, dalla quale si è poi dimessa quando scoppiò lo scandalo dei suoi scritti antisemiti. Ma la filosofa Di Cesare non avrebbe dovuto aspettare la pubblicazione di quei testi per conoscere chi era Heidegger, oppure i criteri per esaminare la 'profondità' da parte della Di Cesare sono diversi da quelli comuni a tutti? Ci piacerebbe conoscere quali erono i suoi compiti quando era vice-presidente della Fondazione Heidegger. E' troppo chiederlo?

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I libri sul razzismo, sull'antisemitismo, sull'odio verso l'altro, si chiudono in genere con un happy end: la convinzione che questa brutta storia sia conclusa, l'auspicio che sia almeno agli sgoccioli. Nel discorso pubblico si parla perciò, con una certa disinvoltura, di «rigurgiti del passato». Sennonché lo scenario attuale smentisce drasticamente questa visione ottimistica. Il progresso scandisce l'accelerazione delle scoperte scientifiche, ma non detta il battito delle vicende umane. Inutile, dunque, attendere con bonaria fiducia che la storia faccia il suo corso cancellando definitivamente le tracce di un'epoca oscura. Meglio aprire gli occhi e cambiare linguaggio. Condannato universalmente dopo Norimberga, destituito di fondamento scientifico, sanzionato dalla storia, il razzismo non avrebbe più dovuto esistere. Eppure, al contrario, dilaga. Né ha senso crogiolarsi nell'idea rassicurante che si tratti solo di sparuti gruppi folcloristici, di pochi nostalgici, di qualche testa calda. A meno di non essere in malafede. Certo il nuovo razzista è una specie non prevista nel nuovo millennio, che si immaginava un'era indenne da intolleranza, rifiuto, risentimento. Anche l'ottimista più convinto non può però non ricredersi dinanzi all'acuirsi del fenomeno, al diffondersi della violenza. I filamenti neri di questa visualizzazione, che disegnano i crimini di odio compiuti nel 2m6 in 37 Paesi — molti europei — non lasciano alcun dubbio in proposito. E oltre ad allarmare, dovrebbero far riflettere non solo chi ha responsabilità di governo, ma tutti i cittadini che tengono alla democrazia. Perché è evidente che, di fronte a questi risultati, sbagliate sono sia le analisi, sia le strategie politiche e culturali. L'errore più grande è stato quello di aver ridotto l'antirazzismo a un compito di mera denuncia, compito ingrato perché, ogni volta che sembra concluso, deve ricominciare. Nella mappa aggiornata dei crimini d'odio colpiscono in particolare alcuni filamenti. Anzitutto quello al centro che s'innalza in un'iperbole per indicare l'antisemitismo in Germania — il Paese in cui le aggressioni contro gli ebrei superano quelle perpetrate altrove. Com'è possibile? Forse il dato sarà opera di giudici zelanti e di una legislazione severa. Resta, però, in tutta la sua gravità, l'esito angosciante: il Paese del Terzo Reich è quello che vanta il più alto numero di attacchi antisemiti. Il che non sorprende chi conosce la Germania profonda — non Berlino, ma la provincia della Baviera, o quella del Baden, e le regioni orientali tra il territorio di Dresda e il Mar Baltico. La Germania non ha elaborato il passato meglio di altre nazioni. Il Memoriale dell'Olocausto, nel cuore della capitale, ha avuto sin dall'inizio un ruolo ambivalente e ha funzionato come pietra tombale per compensare l'incapacità del lutto e per sopire le colpe tedesche. Con la riunificazione, perno ipercelebrato intorno a cui si è andata ricostruendo la nuova immacolata identità tedesca, la Germania ha voltato pagina. Il passato della Shoah è divenuto fastidioso e sgradevole, come gli ebrei (ormai oltre 200 mila) che lo rievocano. Né va dimenticata quella campagna diffamatoria contro la religione e i tre monoteismi, di cui hanno fatto le spese soprattutto ebraismo e islam. Le posizioni ufficiali non hanno seguito. Non si spiegherebbe altrimenti il consenso goduto non solo dai neohitleriani, ma anche da partiti populisti come Alternative für Deutschland. Molto si potrebbe dire anche sull'antisemitismo negli Usa, in Austria, in Belgio, in Francia, in Gran Bretagna, in Ungheria, in Romania, in Ucraina, persino in Danimarca e in Spagna (dove gli ebrei vivono solo da qualche anno). Rinfocolato dal negazionismo, l'odio assume forme inedite, dal rimprovero di voler monopolizzare la sofferenza alla dottrina che predica il «business della Shoah», per cui gli ebrei avrebbero fatto dello sterminio un'industria. Dal Mein Kampf di Hitler a oggi la delegittimazione di Israele è arrivata a vertici inusitati.E per quanto si possa criticarne l'ottuso governo di destra, resta inaccettabile mettere in questione l'intera storia del popolo ebraico e la sua esistenza politica. Fa vergogna il filamento nero che segna, nell'Italia odierna, i crimini d'odio contro Rom e Sinti, i cosiddetti «zingari». Portano la responsabilità non pochi capi politici e molti media che hanno contribuito a stigmatizzare la figura del «nomade» malvagio e scellerato, delinquente inveterato e irrecuperabile. Ma la lista continua con l'esiziale islamofobia diffusa nell'Europa dell'ovest, in quella dell'est, nonché oltreoceano. Non mancano gli attacchi agli omosessuali, proprio dove il livello di attenzione è alto, e le aggressioni contro i disabili addirittura nella civile Svizzera. Il filamento della xenofobia campeggia ovunque, raggiungendo veri e propri vertici in Russia, in Polonia, in Italia, in Irlanda, in Grecia, in Croazia e in Bosnia. Il razzismo, passione identitaria che non si limita a detestare l'alterità, ma ha orrore di riconoscerla in sé, interdetto nello spazio pubblico, ha preso la via del web, dove ha potuto facilmente insediarsi affrancandosi da ogni tabù. Certo il neorazzista è spesso un criptorazzista che si dissimula ricorrendo a sotterfugi, a volteggi lessicali, giocando sull'equivoco, nel tentativo di aggirare la censura. Equipara l'immigrazione a una «invasione»; sostiene che i migranti portano il contagio; asseconda teorie complottiste. Ma razzista resta, perché aizza contro il diverso, il migrante, il povero. Lo fa con quel gesto di discriminazione che separa i no io dai «non-noi», uno iato che non divide necessariamente razze, ma può distinguere anche due civiltà, due religioni, cristallizzate in schemi rigidi. L'esclusione diventa permanente, collocando al centro il proprio sé e respingendo in un pericoloso margine l'altro. Non basta però la denuncia di questo gesto discriminatorio. I rituali antirazzisti, i cerimoniali della memoria, sempre più svuotati di contenuti, ridotti persino a eventi semisportivi, sono ormai il palliativo periodico della buona coscienza. Paradossalmente ottengono l'effetto opposto. Questo è davvero il grande problema. Occorrono piuttosto lo studio e la riflessione; perché si deve conoscere per essere in grado di riconoscere il fascismo, il nazismo, l'hitlerismo — e per non ripetere gli errori del passato.

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