Riprendiamo oggi, 07/01/2018 alcuni servizi sull'Iran. Dalla STAMPA, a pag.11, l'analisi di Giordano Stabile e la breve, nella stessa pagina, sulla dichiarazione del Segretario di Stato Usa Rex Tillerson, predeuta da un nostro commento. Dalla REPUBBLICA, a pag.13, l'intervista di Francesca Caferri a Azar Nafisi, autrice del capolavoro 'Leggere Lolita a Teheran', con un nostro commento.
La Stampa-Giordano Stabile: " Teheran, nelle fondazioni caritatevoli il potere occulto degli ayatollah"
Giordano Stabile
C’è un filo che lega gli assalti alle banche da parte dei manifestanti e la finanza occulta degli ayatollah, e dei Pasdaran. Le proteste esplose il 28 dicembre scorso si sono sfogate su molti bersagli, ma tra i favoriti ci sono filiali e sportelli, distrutti e incendiati a decine. La ragione è la crisi di numerosi istituti locali, che hanno «congelato» i depositi e bruciato i risparmi delle famiglie. Una gestione sciagurata del credito che ha alle origini le fondazioni caritatevoli, conosciute come Bonyad. Le Bonyad hanno come scopo ufficiale lo sviluppo del benessere e la distribuzione della ricchezza secondo uno dei cinque pilastri dell’islam, la zakat, la tassa obbligatoria che i ricchi devono pagare in favore dei meno fortunati. La corrente sciita ha sviluppato questo principio attorno alle grandi fondazioni sorte nei mausolei degli imam successori di Maometto. Il maggiore è il santuario dell’Imam Reza a Mashhad, sede della più potente delle fondazioni, controllata dalla Guida suprema Ali Khamenei. Proprio a Mashhad, terza città santa sciita in Iran e roccaforte dell’integralismo, è cominciata la rivolta, cavalcata all’inizio dai nemici del presidente riformista Hassan Rohani, a cominciare dal predecessore Mahmoud Ahmadinejad, ora sotto inchiesta. Ma la rabbia popolare si è ritorta quasi subito anche contro di loro. L’economia «compassionevole» immaginata da Khomeini si è trasformata in speculazione, che arricchisce ayatollah e le loro famiglie e sodali, finanzia le avventure all’estero dei Pasdaran e scarica poi le perdite sulla povera gente. Uno degli schemi usati, descritto dall’attivista Raman Ghavami, è quello di erogare prestiti con un’abitazione come garanzia, ma del valore di dieci volte superiore. Il beneficiario non restituisce, l’istituto pignora la casa, ma ci rimette comunque milioni. Operazioni di questo tipo hanno arricchito le clientele dei religiosi ed esasperato i risparmiatori. Le Bonyad, secondo l’analista Abbas Bakhtiar, rappresentano «il 30% del Pil» iraniano, quindi circa 120 miliardi di dollari ai valori attuali. Simili a organizzazioni no-profit, hanno come principale fonte di entrate la zakat e il giro d’affari legato ai santuari (hotel, ristoranti, negozi religiosi), non pagano tasse, sono fuori dal circuito dei pagamenti internazionali, e organizzate in decine di piccole imprese, che vanno dal commercio, all’edilizia, alla finanza. Oggi si contano almeno 120 Bonyad in Iran. Le prime sono state fondate dallo scià Mohammed Reza Pahlavi, come forma di controllo dell’economia e mezzo per arricchire la famiglia reale. Gli ayatollah hanno replicato e ampliato lo schema. Le loro fondazioni sono anche nel mirino dei servizi segreti americani, perché servono ad aggirare le sanzioni internazionali e a finanziare milizie sciite in Medio Oriente. Alcune Bonyad sono gestite dai Guardiani della rivoluzione, e al corpo di élite Al-Quds guidato dal generale Qassem Soleimani: la Bonyad e Mostazafan, la Fondazione degli oppressi, come pure la Fondazione dei Martiri. Alcuni operativi dei pasdaran hanno come funzioni di copertura un impiego in una delle aziende collegate, banche, centri culturali. Il vero motore del regime è però l’Astan Quds Razavi, la fondazione che gestisce il santuario dell’Imam Reza a Mashhad. Khamenei ha prima piazzato al vertice l’ayatollah ultraconservatore Abbas Vaez-Tabasi e poi alla sua morte nel marzo 2016 il fidato Ebrahim Raeisi, il più serio sfidante di Rohani alle ultime presidenziali. Una mossa che ha stretto ancor più il legame fra la Guida suprema e una macchina da soldi con un fatturato segreto, ma nell’ordine di una decina di miliardi.
La Stampa:"Nucleare, le trattive di Tillerson per non mandare all'aria l'accordo"
Rex Tillerson
Desta preoccupazione questa breve di agenzia. Qual'è il compito reale di Tillerson? Aggiustare lo sciagurato accordo di Obama sul nucleare iraniano oppure cancellarlo? La decisone di Trump il 12 gennaio prossimo.
Trump tuona ogni giorno contro l’Iran, ma il suo segretario di Stato tratta per restare nell’accordo sul nucleare. Rex Tillerson, ha detto che sta negoziando con la Casa Bianca e membri del Congresso una possibile soluzione legislativa che consentirebbe agli Stati Uniti di rimanere nell’accordo sul nucleare iraniano, includendo nuove condizioni per Teheran. «Stiamo cercando di mantenere la promessa fatta di aggiustarlo» dice Tillerson. Le sue parole arrivano alla vigilia del 12 gennaio, data entro la quale il presidente Trump deve decidere ufficialmente se confermare o meno l’accordo. Trump tuona ogni giorno contro l’Iran, ma il suo segretario di Stato tratta per restare nell’accordo sul nucleare. Rex Tillerson, ha detto che sta negoziando con la Casa Bianca e membri del Congresso una possibile soluzione legislativa che consentirebbe agli Stati Uniti di rimanere nell’accordo sul nucleare iraniano, includendo nuove condizioni per Teheran. «Stiamo cercando di mantenere la promessa fatta di aggiustarlo» dice Tillerson. Le sue parole arrivano alla vigilia del 12 gennaio, data entro la quale il presidente Trump deve decidere ufficialmente se confermare o meno l’accordo.
La Repubblica-Francesca Caferri:"Nafisi 'nel mio Iran la rivolta continua chi protesta vuole la fine del regime"
Le risposte di Azar Nafisi sono incoraggianti, anche se sottolinea la mancanza di una leadership in grado di guidare la rivolta. La leadership ci sarebbe, ma è stata eliminata fisicamente durante le manifestazioni o in carcere, oppure è viva perchè è riuscita a fuggire dal paese e, come nel caso di Nafisi, segue quanto accade da New York.
IC pubblica oggi una analisi di Antonio Donno dal titolo "Come Trump sta ridisegnando la politica estera Usa", nella quale descrive un possibile intervento esterno degli Usa per sostenere la rivolta contro la repubblica degli ayatollah. Da leggere.
Francesca Caferri Azar Nafisi
«Non perdo la speranza. Non l'ho mai persa. Neanche dopo il 2009, la repressione, i morti in strada: la gente vuole la fine del regime in Iran. E prima o poi la otterrà. Quello a cui abbiamo assistito in questi giorni è l'inizio di qualcosa, non la fine. Ho molta speranza». Azar Nafisi è la più famosa voce della letteratura iraniana dell'esilio: con il suo "Leggere Lolita a Teheran" ha raggiunto milioni di lettori in decine di Paesi nel mondo. Successo replicato con i successivi "Le cose che non ho detto" e "La Repubblica dell'immaginazione". Pagina dopo pagina, intervista dopo intervista, negli ultimi anni il suo discorso si è fatto sempre più politico: il sintomo della nostalgia per un Paese che vorrebbe diverso, probabilmente.
Signora Nafisi, le ultime notizie che arrivano dall'Iran parlano di decine di studenti arrestati e di una rivolta in gran parte sedata dal governo. Cosa le dà speranza?
«Il fatto che la gente sia tornata in strada dopo il sangue del 2009 è di per sé un segno di speranza. Allora si poteva dire che chi manifestava non sapeva cosa rischiava oggi, dopo quei fatti, tutti lo sanno benissimo. Eppure a migliaia sono andati alle proteste».
Quindi lei crede che queste rivolte siano la prosecuzione di quelle del 2009?
«È lo spirito del 2009 che torna, la continuazione di una lotta della gente contro il regime che va avanti da quando la Repubblica islamica è stata creata. E che non si fermerà fino a quando non cadrà: ci vogliono anni perché le proteste rinascano, ogni volta in strada c'è più gente e slogan più radicali. Questo è ciò che mi dà speranza».
Non c'è nulla che la preoccupi?
«Certo che c'è. La mancanza di una leadership organizzata è la risposta più ovvia. Il regime ha imparato dal passato: e una delle prime cose che fa, da anni, è impedire la creazione di una leadership alternativa. Qualunque organizzazione o singola persona possa rappresentare un pericolo, viene fermata. Mancano anche delle richieste specifiche: ci sono grandi slogan ma non un programma».
Nel 2009 c'era un obiettivo chiaro e leader carismatici. Ma il regime ha vinto lo stesso: cosa le fa pensare che oggi andrà meglio?
«Ho molta fiducia nella società civile iraniana, è sempre stata più avanti del resto del Paese. Le sue richieste non sono solo economiche, ma toccano tutti i livelli della società: la cultura, la politica, l'insoddisfazione per l'invadenza del regime nella sfera privata della vita dei cittadini. La lotta è su più livelli: il tracollo economico è il risultato di una enorme corruzione. Moltissime persone vivono in condizioni di miseria, e non possono accettare che i soldi degli iraniani vengano spesi in Siria o in Yemen. Nessuno di questi problemi sta scomparendo. La gente è insoddisfatta, da tempo: la prossima volta sarà più rabbiosa, più furiosa».
Questo però è il giudizio di chi vive in esilio...
«Certo. Ma io parlo costantemente con i miei amici in Iran e tutti mi ripetono che la lotta va avanti giorno dopo giorno, lontano dalle telecamere. Che finirà solo quando cambierà. E visto che non sta cambiando, non finirà ora. Questo regime non è abbastanza saggio da ascoltare la sua gente: invece di farlo gli spara addosso. E tacendo questo sta firmando la sua condanna a morte. Gli iraniani sono persone molto sofisticate: sanno esattamente chi è responsabile di quello che stanno vivendo e non si fermeranno finché non uscirà di scena».
In questi giorni si è parlato molto delle donne iraniane, simbolo della rivolta e alla testa delle manifestazioni. È, anche, una rivolta femminista questa?
«In Iran le donne sono sempre in prima fila. Hanno capito da tempo che se vogliono battersi peri loro diritti devono combattere peri diritti di tutti. Ora stanno portando avanti questa campagna contro il velo: ma non è contro il velo e basta che si battono. È in nome della libertà di scelta, del riaffermare che nessuno deve dire a una donna come deve porsi nei confronti di Dio. Le donna in strada stanno combattendo per i diritti di tutti. Sono diventate un simbolo ed è un bene, perché tutta la regione le sta guardando: se vinceranno il loro esempio sarà preso a modello da tutta la regione e da tutto il mondo musulmano».
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