Riprendiamo dal FOGLIO dedi oggi, 05/01/2018, a pag.1, con il titolo "Breve ripasso degli articoli della Costituzione che il partito fondato da un comico intende violare: artt. 1, 27, 48, 49, 67, 51, 97", l'editoriale del direttore Claudio Cerasa; a pag. 2, con il titolo "Il revival pentastellato di Rousseau, il teorico della democrazia totalitaria", il commento di Giuseppe Bedeschi.
Ecco gli articoli:
Claudio Cerasa: "Breve ripasso degli articoli della Costituzione che il partito fondato da un comico intende violare: artt. 1, 27, 48, 49, 67, 51, 97"
Claudio Cerasa
In Italia esiste un partito fondato da un comico, guidato da un pagliaccio e gestito da un clown che ha costruito parte della sua fortuna difendendo in modo appassionato la Costituzione più bella del mondo salvo però dimenticarsi che la Costituzione che governa l’Italia è quella entrata in vigore il primo gennaio del 1948 dopo il voto dell’Assemblea costituente e non quella che una volta all’anno entra in vigore sul blog di un comico gestito da un clown. Per questo abbiamo deciso oggi di offrirvi un breve corsivo per ricordare quello che ogni giornale con la testa sulle spalle dovrebbe scolpire sul marmo in questa campagna elettorale. Non un grande lavoro, solo una piccola ricognizione: la storia semplice ed elementare di alcuni articoli della Costituzione. Procediamo veloci. Articolo 1: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Nello specifico, l’Italia è una democrazia rappresentativa (non una democrazia diretta) nella quale gli aventi diritto al voto (articolo 48 della Costituzione) eleggono dei rappresentanti per essere governati attraverso l’esercizio del diritto di voto (“Il voto è personale ed uguale, libero e segreto”) mediante il quale ogni cittadino sceglie i propri rappresentanti ai quali viene delegata non la sovranità ma, come si dice, la cura effettiva degli affari pubblici. I rappresentanti scelti dal popolo (articolo 67) una volta arrivati in Parlamento rappresentano il paese e non solo un partito (sono deputati, non sudditi) e per questo sono eletti senza vincolo di mandato per le ragioni che spiegò bene il grande Edmund Burke il 3 novembre del 1744: “Il Parlamento non è un congresso di ambasciatori di opposti e ostili interessi, interessi che ciascuno deve tutelare come agente o avvocato; il Parlamento è assemblea deliberante di una nazione, con un solo interesse, quello dell’intero, dove non dovrebbero essere di guida interessi e pregiudizi locali, ma il bene generale”. Per arrivare in Parlamento, articolo 49, “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Inoltre, come prevede l’articolo 51, “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge” e il diritto di accesso in condizione di eguaglianza alle cariche elettive comporta il conseguente divieto (divieto) di stabilire limiti o condizioni differenti per l’accesso alle cariche stesse che siano diversi dai requisiti previsti in via generale per il godimento dei diritti politici. Ogni tentativo di stabilire un limite o una condizione differente per accedere alle cariche (per esempio un contratto con una penale) è perciò una forma di estorsione che vìola il principio dell’elezione “in condizioni di eguaglianza” per la semplice ragione che potrebbe avere l’effetto di impedirne o comunque di comprimerne l’esercizio. In base a questi princìpi costituzionali, un soggetto eletto, come prevede la giurisprudenza, non può assumere durante il proprio mandato “uffici o cariche se posto in condizione di subalternità tale da dover delegare a terzi le funzioni tipiche del pubblico incarico ricoperto ed attribuito ad egli soltanto sulla base di un preciso mandato elettorale ricevuto dai cittadini”. In particolare, tranquilli l’elenco è quasi finito ma vale la pena arrivare fino in fondo, quando si viene eletti in un ente locale, per esempio, il candidato non può vincolare le sue decisioni a un soggetto esterno e a quel soggetto (come prevede l’articolo 97 della Costituzione) può rivolgersi solo per un mero parere, perché vincolato dal principio del buon andamento della amministrazione di cui egli è giudice (art. 97 della Costituzione). In altre parole, il candidato non può in nessun modo cedere a terzi un suo diritto. Chiaro?
Infine, last but not least, ogni parlamentare sa che il potere legislativo e il potere giudiziario sono due poteri che devono vivere in un regime di separazione e l’equilibrio dei due poteri è garantito, tra gli altri, da due articoli della Costituzione. Il numero 27, in base al quale non basta un’indagine per essere lapidato e in base al quale “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. E il numero 111, in base al quale “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale: la legge ne assicura la ragionevole durata”. Benissimo. Questa breve lezione, questo breve ripasso, è utile per ricordarci una cosa semplice. In Italia esiste un partito fondato da un comico, guidato da un pagliaccio e gestito da un clown che si presenta alle elezioni considerando ogni imputato colpevole fino a prova contraria (violazione dell’articolo 27), che chiede di abolire il principio del giusto processo eliminando la prescrizione (violazione dell’articolo 111), che fa firmare ai suoi amministratori locali contratti che li costringono a cedere a terzi il controllo preventivo di “tutte le proposte di alta amministrazione e le questioni giuridicamente complesse” (violazione dell’articolo 97), che costringe i suoi potenziali eletti a firmare contratti con penali estorsive negando loro il diritto di accesso in condizione di eguaglianza alle cariche elettive (violazione dell’articolo 51), che si presenta in Parlamento non con un partito (violazione dell’articolo 49) ma con un movimento controllato da un’associazione misteriosa guidata dal capo di un’azienda privata che costringe gli eletti del “non partito” a versare alla sua associazione 300 euro al mese (circa 4 milioni di euro in una legislatura), che impone agli eletti di un “non partito” teleguidato dal capo di un’azienda privata di pagare una multa da 100 mila euro in caso di dissenso con la linea di quel partito (violazione dell’articolo 67), che sogna di sostituire la democrazia rappresentativa con la democrazia diretta (violazione dell’articolo 1 della Costituzione) e che si presenta alle elezioni con un candidato premier che sogna di convocare un referendum consultivo (senza una modifica della Costituzione, i referendum possono essere solo abrogativi, salvo alcuni casi territoriali previsti dall’articolo 132 della Costituzione) per chiedere ai cittadini se vogliono uscire dall’euro, ignorando sia che l’articolo 75 della Costituzione vieta esplicitamente che possa svolgersi un simile referendum sulle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali sia che un referendum consultivo non sarebbe solo consultivo ma avrebbe l’effetto ovvio in caso di vittoria del Sì di costringere il governo a uscire davvero dall’euro (anche il referendum sulla Brexit era tecnicamente consultivo). Un candidato premier, infine, scelto nell’ambito di una consultazione in rete, avvenuta all’interno di una piattaforma online coordinata dal capo di un’azienda privata (Rousseau), viziata secondo il Garante della privacy (provvedimento del 21 dicembre 2017) da un problema importante: “La concreta possibilità di associare, in ogni momento successivo alla votazione, oltre che durante le operazioni di voto, i voti espressi ai rispettivi votanti e la possibilità di tracciare a ritroso il voto espresso dagli interessati”. Non esattamente in linea, diciamo, con quanto previsto dall’articolo 49 della Costituzione il quale prevede che “Il voto è personale ed uguale, libero e segreto”. In Italia esiste dunque un partito fondato da un comico, guidato da un pagliaccio e gestito da un clown che ha costruito parte della sua fortuna difendendo la Costituzione più bella del mondo salvo essersi dimenticato che la Costituzione che governa l’Italia è quella entrata in vigore il primo gennaio del 1948 dopo un voto dell’Assemblea costituente e non quella che una volta all’anno entra in vigore sul blog di un comico gestito da un clown. Il quadro è fin troppo chiaro: è arrivato davvero il momento di scatenarsi tutti contro la legge sui sacchetti biodegradabili.
Giuseppe Bedeschi: "Il revival pentastellato di Rousseau, il teorico della democrazia totalitaria"
Beppe Grillo
Il pensiero di Rousseau ha goduto di molta attenzione nella cultura italiana degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, cioè ai tempi dell’egemonia marxista. Chi scorra le annate delle riviste comuniste o controllate dal Pci di quegli anni (“Rina - scita”, “Società”, “Il contemporaneo”), troverà molti articoli e saggi dedicati al pensatore ginevrino. E pour cause: perché i nove decimi della teoria politica di Marx (la democrazia diretta, il rifiuto della divisione dei poteri, ecc.) provengono direttamente da Rousseau. Sicché fece scandalo quando, negli anni Sessanta, un grande studioso liberale, Vittorio De Caprariis (autorevole firma del settimanale “Il mondo” e della rivista “Nord e Sud”), promosse e curò presso la casa editrice il Mulino una collana dedicata ai “classici della democrazia moderna”: una collana che comprendeva Locke, Hume, Kant, Humboldt, Constant, Tocqueville ecc., ed escludeva Rousseau. Ma De Caprariis aveva ben ragione, perché quando egli parlava di “democrazia moderna” intendeva la democrazia liberale, mentre Rousseau era sì un classico, ma, per dirla con Talmon, era un classico della “democrazia totalitaria”. Oggi Rousseau ritorna al centro dell’at - tenzione, perché il movimento Cinque stelle ne ha fatto una bandiera (gli avvenimenti storici – amava ricordare Marx – si svolgono sempre due volte: una prima volta come tragedia, e una seconda volta come farsa). Può essere quindi utile ricordare perché gli esponenti del pensiero liberale hanno sempre considerato Rousseau un teorico della “democrazia totalitaria”. Si può fare riferimento, a questo proposito, a un bellissimo saggio di Luigi Einaudi (scritto nel 1956) sul filosofo ginevrino. In questo breve e acuto saggio Einaudi sottolineava la chiave di volta del Contratto sociale di Rousseau: la rigorosa distinzione che il ginevrino istituisce fra “volontà generale” e “volontà di tutti”. La “volontà generale” tende sì al bene comune, ma è un’entità mistica (essa non può errare, è indistruttibile, ecc.); invece la “volontà di tutti” (che, peraltro, è la sola empiricamente verificabile, perché può essere “contata”) è la somma delle volontà particolari dei singoli, cioè è la somma dei loro egoismi. Occorre dunque che la “volontà generale” prevalga sulla “volontà di tutti”. Dice Rousseau: “Come potrebbe una moltitudine cieca, che spesso non sa quello che vuole, perché raramente sa ciò che è bene per essa, realizzare da sé un’impre - sa così grande e così difficile quale un sistema di legislazione? Da sé il popolo vuole sempre il bene, ma da sé non sempre lo vede. La volontà generale è sempre retta, ma il giudizio che la guida non sempre è illuminato. Bisogna farle vedere le cose come sono, qualche volta come devono apparirle, indicarle la buona strada che essa cerca, proteggerla dalle seduzioni delle volontà particolari, avvicinare ai suoi occhi i luoghi e i tempi, bilanciare l’attrattiva dei vantaggi presenti e sensibili con il pericolo dei mali lontani e nascosti. I singoli vedono il bene che non vogliono; la collettività vuole il bene che non vede. Tutti hanno ugualmente bisogno di guida. Bisogna obbligare gli uni ad adeguare la loro volontà alla loro ragione; bisogna insegnare all’altra a conoscere quello che vuole” (II, 6). Dunque il popolo deve essere guidato, perché non sempre vede il bene, cioè non sempre è in grado di esprimere la “volontà generale”; alla moltitudine bisogna inculcare la “buona strada” (e qui è più che evidente il paternalismo autoritario di Rousseau). Ma in che modo? Einaudi sottolinea le condizioni poste dal ginevrino affinché la “volontà generale” possa imporsi. Occorre che: la deliberazione sia presa dai singoli, i quali votino gli uni indipendentemente dagli altri, senza subire le influenze dei gruppi, delle fazioni, dei partiti (i quali sono sempre qualcosa di negativo, perché paladini di interessi particolari); ma poiché il cittadino vuole il bene ma non lo conosce, egli deve essere istruito e guidato da chi conosce il bene comune; il cittadino, così istruito, deve inchinarsi al risultato del voto; ma egli non ha il diritto di continuare a propugnare quella che egli ritiene la verità e non ha il diritto, ove riesca a persuadere altri, di volgere la minoranza in maggioranza e modificare la legge; no, il risultato della deliberazione gli fa sapere soltanto che egli era nell’errore e non conosceva la verità. I votanti, in realtà, non hanno, col voto di una maggioranza, affermata una volontà generale. Essa preesisteva, ed essi l’hanno soltanto riconosciuta; l’uomo è veramente libero solo se si sottomette a quella volontà generale che egli non ha voluto ma ha semplicemente riconosciuto perché illuminato da coloro che sanno. Questo – aggiungeva Einaudi – il messaggio del cittadino di Ginevra: non il voto dei cittadini, ma il riconoscimento degli dei afferma la “volontà generale”. Rousseau forse non prevedeva che la sua dottrina sarebbe stata feconda di effetti molto gravi, poiché a decine gli dei sono comparsi ed hanno assunto l’ufficio di guide dei popoli. “Da Robespierre a Babeuf, da Buonarroti a Saint-Simon, da Fourier a Marx, da Mussolini a Hitler, da Lenin a Stalin, si sono succedute le guide a insegnare ai popoli inconsapevoli quale era la verità, quale era la volontà generale, che essi ignoravano; ma che una volta insegnata e riconosciuta, i popoli non potevano rifiutarsi di attuare”. La dottrina di Rousseau ha insegnato che la libertà non consiste nel discutere dapprima e poi nell’accetta - re il volere della maggioranza, salvo il diritto di continuare a discutere e di ridurre la maggioranza a minoranza. “Nel sistema degli dèi e delle guide, che hanno scoperto la vera verità – concludeva Einaudi – gli uomini si sentono liberi solo quando la guida inviata dall’oracolo divino ha indicato la via della verità ed ha condannato l’errore. L’errore, la deviazione, l’opposizione al principio dichiarato nelle tavole fondamentali dell’uomo-guida, del partito-guida, è illecito, è un delitto contro la volontà generale e deve essere eliminato”. In Rousseau sono dunque evidenti le premesse del totalitarismo (e anche Gaetano Salvemini parlò, a proposito del ginevrino, di “infiltrazioni totalitarie”).
Per inviare la propria opinione al Foglio, telefonare 06/589090, oppure cliccare sulla e-mail sottostante