Riprendiamo dal FOGLIO, di oggi 05/01/2018, a pag. 1, con il titolo "L’appello a Trump", il commento di Daniele Raineri; dal GIORNALE, a pag. 20, con il titolo 'Dietro questa rivolta c'è l'Arabia Saudita. Ha detto chiaramente di voler colpire Teheran', l'intervista di Gian Micalessin al terrorista libanese Anis Naqqash.
A destra: crimini contro l'umanità in Iran
Su Avvenire di oggi, a pag. 21, un articolo viene intitolato "Israele, via alle espulsioni, 38mila africani verso il rimpatrio". Non riprendiamo l'articolo - di questo argomento abbiamo più volte scritto recentemente - ma sottolineiamo come finalmente Avvenire utilizzi il verbo "espellere" (in inglese: "to deport") invece di "deportare". Per approfondire rimandiamo alla pagina di IC: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=1&sez=120&id=68947
Ecco gli articoli:
Il Foglio-Daniele Raineri: "L’appello a Trump"
Daniele Raineri
Roma. Le proteste più ampie in Iran dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista, sono arrivate all’ottavo giorno e non è chiaro se la loro forza è ormai scemata e si spegneranno in pochi giorni oppure se andranno avanti – a dispetto del fatto che il capo dei pasdaran, Ali Jafari, le abbia dichiarate “finite” due giorni fa. Ieri circolavano ancora video molto freschi di proteste nelle strade e notizie in diretta di scontri con morti, ma è molto difficile avere un’immagine fedele di cosa sta succedendo davvero. In parte perché i reporter stranieri sono per ora concentrati nella capitale Teheran, molto risparmiata dai disordini, e non nelle piccole città molto religiose dove le rivolte sono scoppiate con più forza. Ma soprattutto perché le mille informazioni frammentarie rilanciate dai manifestanti circolano poco da quando il governo ha ristretto con successo internet nei primi giorni di proteste. Whatsapp, Telegram e Instagram sono bloccati, e in più c’è la derisione amara di un servizio sulla tv di stato che intervistava iraniani felici di avere più tempo libero per fare altro ora che non sono più distratti da quei servizi. E’ possibile ancora accedere a social media e messaggi se si entra in internet attraverso una Vpn, quindi attraverso un programma che trucca l’indirizzo IP del computer e lo fa apparire come se fosse all’estero (e quindi non soggetto alle restrizioni), ma spesso il governo ordina di rallentare in modo deliberato la velocità di internet e quindi anche questo stratagemma delle Vpn funziona poco. Gli iraniani da tempo non hanno Twitter, che fu bloccato durante le proteste dell’Onda verde del 2009, quasi dieci anni fa, dal governo dell’allora presidente Mahmoud Ahmadinejad, molto falco e conservatore. C’è dell’ironia, considerato che a marzo lo stesso Ahmadinejad ha aperto un proprio account su Twitter, come pure hanno fatto la Guida suprema Ali Khamenei, che ha quasi mezzo milione di follower e account in diversi linguaggi, e anche il presidente Hassan Rohani e il ministro degli Esteri Javad Zarif. Questi ultimi due su Twitter hanno anche la spunta blu, vale a dire un segno concesso dalla casa madre di San Francisco che certifica che sono proprio loro. La spunta blu negli anni è cominciata a essere considerata come l’equivalente di un endorsement da parte di Twitter, come se il sito riconoscesse l’importanza e il rango dell’account. In questo modo, Twitter concede un attestato di legittimità ai leader di un governo che in teoria impedisce a tutti gli ottanta milioni di iraniani ordinari di usare Twitter. L’apparato di repressione iraniano è consapevole che il blocco può essere aggirato, al punto che Tasnim, il sito del giornale delle Guardie della rivoluzione, sta chiedendo a tutti i suoi lettori di identificare i manifestanti per arrestarli – e lo sta chiedendo anche mostrando le loro foto via Twitter, come riporta la giornalista Golnaz Esfandiari. Da strumento di libertà a facilitatore della reazione governativa. Il paradosso di Twitter è una rappresentazione interessante della crisi iraniana: gli iraniani protestano perché non hanno gli stessi privilegi dei leader, e si tratta di privilegi in stile occidentale. Il 2 gennaio un bella testimonianza del romanziere e giornalista iraniano Amir Ahmadi Arian sul New York Times spiegava che a gonfiare l’ira del ceto meno abbiente c’è il cambio di stile della classe più fortunata del paese, che un tempo si riparava dietro a una facciata di sobrietà pubblica e che oggi invece lascia che i suoi rampolli viziati girino in auto di lusso e mettano su internet foto di spiagge lontane dove si beve birra senza problemi. Ieri su alcuni canali Telegram creati dagli arrabbiati iraniani circolava un appello all’Amministrazione Trump perché in qualche modo desse accesso libero a internet a tutti gli iraniani. Si tratta di una boutade, perché il governo americano non ha i mezzi tecnici per liberare l’accesso a internet e scavalcare il controllo di Teheran, ma è anche un punto centrale di queste proteste che, anche in caso di fallimento, hanno già cambiato il paese.
IL Giornale - Gian Micalessin: 'Dietro questa rivolta c'è l'Arabia Saudita. Ha detto chiaramente di voler colpire Teheran'
Gian Micalessin
Anis Naqqash
Quando nel 1975 il terrorista Carlos, detto lo Sciacallo, attacca la sede dell'Opec di Vienna e prende in ostaggio una decina di ministri arabi, lui è al suo fianco. Quando la neonata Repubblica Islamica organizza le cellule libanesi da cui nascerà Hezbollah è tra i primi, nonostante sia sunnita, ad abbandonare l'Olp e mettersi al servizio dell'Ayatollah Khomeini. E quando, nel 1980, Khomeini gli chiede di far fuori l'ex primo ministro iraniano Shapour Bakhtiar in esilio a Parigi lui non esita un attimo. «Non è stato un attentato terroristico - racconta in questa intervista esclusiva a Il Giornale Bakhtiar stava preparando un colpo di stato per mettere fine alla Rivoluzione ed era stato condannato a morte. Io sono stato semplicemente mandato a eseguire la sentenza purtroppo sono stato ferito e arrestato». Il libanese Anis Naqqash, 67 anni, è ancora oggi il depositario di molti segreti. Non a caso nel 1990 - nonostante l'ergastolo comminatogli da un tribunale francese per l'uccisione di un poliziotto e di una donna nell'attentato a Bakhtiar - viene graziato da Mitterrand in cambio del rilascio degli ostaggi francesi rapiti da Hezbollah in Libano. Stabilitosi in Iran riprende i rapporti con l'amico Imad Mughnye, il capo militare di Hezbollah, mente degli attentati costati la vita, nell'ottobre 1983, a 241 soldati americani e a 58 francesi. Un'amicizia durata fino al febbraio 2008 quando l'«amico Imad» viene ucciso a Damasco in un'operazione congiunta di Cia e Mossad. «Imad era più giovane di me e quando è entrato nell'Olp sono stato io ad addestrarlo. Ci siamo separati solo quando sono finito in prigione racconta ma da quando sono stato liberato e mi sono sistemato a Teheran siamo rimasti sempre in contatto fino alla sua morte».
Oggi Naqqash sostiene di aver abbandonato la militanza attiva, ma fa la spola tra Teheran, Damasco e Beirut e si fregia del titolo di direttore di Aman, un sito internet da cui commenta le vicende mediorientali. Ma questo veterano degli intrighi mediorientali - vicinissimo ai capi dei Guardiani della Rivoluzione è considerato oggi uno dei consiglieri più ascoltati dalla Suprema Guida Alì Khamenei. E al pari della Suprema Guida considera la protesta divampata nelle città iraniane una manovra dei nemici della Repubblica Islamica. «Lo scontento economico di cui si è parlato è solo un pretesto. Certo, dietro la prima manifestazione a Mashaad racconta - c'era la rabbia per i soldi perduti nel fallimento di alcune banche. Tutto però s'inserisce nell'atmosfera che circonda l'Iran. Arabia Saudita, Stati Uniti e Israele sono alla ricerca di una scusa per giustificare un cambio di regime. I problemi economici hanno favorito le operazioni mediatiche realizzate attraverso internet e social media che puntano ad accendere la protesta nelle piazze. La protesta è già finita, ma i servizi di sicurezza iraniani restano all'erta. I sauditi hanno detto chiaramente di voler colpire l'Iran e per farlo stanno finanziando e mobilitando piccoli gruppi anti sistema all'interno del paese. Dietro l'attacco al Parlamento di Teheran dello scorso giugno, ad esempio, c'erano i servizi segreti di Riad. Ma l'Arabia Saudita non lavora da sola. Accanto a lei ci sono Israele e Stati Uniti. E ciascuno fa la sua parte».
Ogni volta che c'è un problema accusate Israele «Dietro la guerra in Siria e tutte e altre minacce c'è sempre Israele. Sono i loro stessi analisti a dire che il conflitto sarà inevitabile, se non nell'immediato da qua a qualche anno. Del resto è nella logica delle cose. Finché continueranno nelle loro politiche contro Gerusalemme e contro il popolo palestinese lo scontro tra l'asse della resistenza e Israele sarà inevitabile».
Parliamo dell'Iran. Lei passa gran parte del suo tempo a Teheran. Ammetterà che c'è un profondo scontento economico. «I problemi interni ci sono, ma la questione principale sono le sanzioni imposte per anni all'Iran. Quelle sanzioni hanno bloccato investimenti stranieri e le transazioni bancarie. E sono state soltanto in parte rimosse. La gente si aspettava un risultato più immediato che invece non c'è stato».
Nelle piazze urlavano slogan contro l'intervento in Siria e i finanziamenti ad Hamas. «Sull'argomento c'è molta propaganda. Molti iraniani ascoltano le televisioni in farsi che trasmettono dall'estero. Sono martellati dalle notizie che attribuiscono la crisi economica all'intervento in Siria e in Iraq. Ma un paio di miliardi di dollari investiti in quelle guerre non fanno la differenza. La differenza la fanno le sanzioni. L'intervento in Siria e Iraq è stato fondamentale per salvare l'Iran. Se i suoi nemici avessero preso il controllo di quei paesi, l'Iran avrebbe dovuto difendersi combattendo dentro le proprie frontiere. E l'intera regione sarebbe stata in preda al terrorismo di Daesh e di Al Qaida».
Il regime però è diviso. I Pasdaran accusano l'ex presidente Ahmadinejad di fomentare la protesta e il presidente Rohuani perde consensi. «Ha visto le manifestazioni a sostegno della Repubblica Islamica? Conservatori e riformisti marciavano assieme. Invece la gente scesa in piazza non aveva neppure dei leader. I dimostranti appartenevano a delle forze marginali che sono da sempre contro il regime e vengono manovrate dall'estero. Per questo tutto si è esaurito in pochi giorni».
Quali sarebbero queste forze marginali? «L'asse principale delle operazioni sono ancora i mujaheddin Khalq che operano dalla Francia e continuano a manovrare dei militanti all'interno dell'Iran. Lavorano agli ordini di Stati Uniti e vengono finanziati con i soldi sauditi».
Ma i mujaheddin Khalq sono un gruppo al lumicino «È vero, proprio per questo non rappresentano una minaccia seria per il regime. Ma per seminare disordine non c'è bisogno di molta gente. Loro da questo punto di vista sono pochi, ma assai attivi. Sono loro a manovrare quelli che gridano slogan contro la Guida Suprema. E dietro alle donne che si strappano il velo ci sono sempre loro».
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