Risultati e speranze
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Cambia l’anno, se non quello religioso, almeno per gli ebrei, quello civile, economico, politico. Ed arriva il momento di fare i bilanci ed esprimere speranze. Dal punto di vista politico di Israele e di chi lo appoggia come noi, quello trascorso non è stato un cattivo anno. Mentre il 2016 si era chiuso con il vergognoso e disastroso appoggio di Obama a una mozione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (le sole mozioni Onu che contano, perché possono sfociare in sanzioni e perfino in atti militari, mentre quelle dell’Assemblea Generale valgono la carta su cui sono scritte) e con la sostanziale alleanza fra Usa e Iran, l’anno appena finito si è chiuso col riconoscimento di Gerusalemme, con la nuova rivolta in Iran e col veto americano alla risoluzione antisraeliana del Consiglio di sicurezza.
L’elezione di Trump è stato il fattore principale che ha contribuito a bloccare la politica terzomondista (e dunque suicida) dell’Occidente. Altri fattori sono state le numerose sconfitte elettorali dei terzomondisti, che se non dappertutto hanno portato alla nomina di governi avversi (come è accaduto però in Austria, Polonia, Ungheria, Danimarca ecc.) hanno condizionato anche gli altri paesi. Pochi osano parlarne, per esempio, ma in Germania a tre mesi e mezzo dalle elezioni Merkel non è riuscita a fare il governo e il suo capitale di credibilità politica continua a consumarsi. Ma Trump a capo della superpotenza mondiale, deciso a fare grande di nuovo l’America, è il fattore decisivo. Di lui si può pensare il male che instancabilmente i media suggeriscono o guardare alla lotta veramente titanica che conduce con lo “stato profondo” del Pentagono, del Dipartimento di Stato e anche di parte del Congresso e ai risultati che ha ottenuto, incluso il riconoscimento di Gerusalemme capitale che molti nella sua stessa squadra non volevano. Per Israele è stata una vittoria importante, che continuerà a dare frutti nonostante la politica antisemita dell’Unione Europea, guidata adesso da Mogherini e Macron.
Sul piano militare la posizione di Israele si è rafforzata. Il ciclo di microterrorismo coi coltelli e con gli investimenti automobilistici ha perso quasi tutto il suo slancio. I tentativi di farla ripartire con le campagne sui metal detector agli ingressi del monte del Tempio e sulla dichiarazione Trump sono falliti. Grazie alla tecnologia israeliana si è spuntata la seconda arma strategica di Hamas, quella dei tunnel: come c’è una “cupola di ferro” che ferma i missili, così si sono trovati strumenti per scoprire e distruggere i tunnel d’attacco. L’aviazione israeliana, già dominante nella regione, si è rafforzata moltissimo grazie alla presa di servizio, un mese fa, del primo squadrone di F35 Adir, capace di superare anche i nuovi sistemi antiaerei russi. E in effetti Israele ha continuato la sua campagna per impedire il trasferimento di armi aggressive a Hezbollah e lo stabilirsi di basi militari iraniane al confine.
Il vero rischio militare oggi è questo: una guerra con l’Iran al nord, ai confini con Libano e Siria, magari iniziato con uno scontro coi mercenari iraniani di Hezbollah. L’esercito israeliano si prepara da tempo a questo scenario, che sarebbe reso più complicato dall’alleanza strategica fra Russia e Iran. Lo fa sul piano politico-diplomatico, dialogando con la Russia, rafforzando l’alleanza con gli Usa, intessendo alleanze tattiche con i paesi sunniti del Golfo, in particolare Emirati, Egitto e Arabia Saudita. Lo fa sul piano militare, dove ha elaborato una dottrina ben più aggressiva dell’ultima guerra del Libano nel 2006. E’ ragionevole pensare che proprio questa preparazione sconsiglia all’Iran di far scatenare una guerra a Hezbollah. Fin quando Israele ha la superiorità strategica, regna la pace, che è nell’interesse vitale dello stato ebraico. C’è guerra invece sempre più aperta fra Iran e Arabia e l’appoggio di Israele all’Arabia conta.
Fra i fattori che hanno fatto del 2017 un anno favorevole per Israele vi è la fitta rete diplomatica stabilita, la crescita dei rapporti economici e politici con l’Estremo Oriente (Cina, ma soprattutto India), con l’Africa e l’America Latina. Questi nuovi rapporti si sono visti solo in parte nelle sedi politiche internazionali come l’Onu (anche se una sessantina di paesi fra assenti, astenuti e contrari alla mozione su Gerusalemme sono un ottimo risultato contro la maggioranza precostituita islamica e terzomondista, cui si è significativamente unita anche l’Europa e purtroppo anche l’Italia). Ma pesa molto sui rapporti di forza reali. L’Onu e le sue agenzie sono dei palcoscenici dove ognuno tiene un ruolo precostituito. Ma le relazioni concrete sono diverse. Basta pensare al caso dell’Egitto, che è addirittura l’autore della mozione su Gerusalemme, ma ha vitale bisogno dell’appoggio militare e di intelligence di Israele nel Sinai e collabora pienamente a ostacolare il riarmo di Hamas.
Questi rapporti sono basati anche sull’economia e la tecnologia israeliane, che sono fra le migliori del mondo e hanno anch’esse conosciuto un ottimo 2017. I dati di bilancio, di inflazione, di disoccupazione dello stato ebraico sono fra i migliori del mondo e l’alleanza fra università, difesa e industria continua a produrre innovazione, scoperte, tecnologie e quindi guadagni, capitale e occupazione in maniera straordinaria. Chi parla di boicottare Israele non sa quello che dice, o progetta di farsi molto male, perché non esiste un prodotto tecnologicamente avanzato sul mercato, un servizio innovativo, una linea di progresso medico e scientifico in cui il contributo israeliano non sia significativo e spesso determinante.
Come avrete notato, in questo mio rapido giro d’orizzonte i palestinisti quasi non ci sono. Il fatto è che nonostante l’uso intensivo del circuito fra terrorismo e propaganda di cui vi ho parlato ieri (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=68900), o forse proprio per questo, per l’ostinata decisione di scansare ogni possibile compromesso con Israele, il palestinismo si è messo nell’angolo da solo. Non ha nulla da dire, nulla da proporre, salvo cercare di danneggiare Israele. Usa i soldi degli aiuti internazionali non per sostenere i propri sudditi e creare un’economia funzionante, ma per finanziare il terrorismo, pagare stipendi agli assassini che ha allevato con una incessante propaganda genocida, e trarne cospicue tangenti (lo sapevate che Mohamed Abbas, dittatore dell’Autorità Palestinese che tiene la presidenza da dodici anni essendo stato eletto solo per quattro e avendo accuratamente evitato di indire elezioni in seguito, è chiamato dalle sue parti “il signor 30%”? E potete indovinare il perché?) Ormai è chiaro che le “trattative di pace” non hanno senso. La “questione palestinese” si risolverà normalizzando lo status quo o imponendo alla struttura terrorista un accordo accettabile per Israele, come sembra voler fare perfino l’Arabia.
Fin qui i risultati. Essi derivano naturalmente dalla vitalità della società israeliana, dall’iniziativa economica, dalla libertà, dall’entusiasmo della popolazione. I problemi sono tanti, compresa l’integrazione dei charedim, lo smantellamento progressivo di quel tanto di socialismo reale laburista che incrosta ancora buona parte del sistema giudiziario, culturale e giornalistico del paese, e influenza anche per certi versi la gestione militare e dei servizi. Ma anche sul piano interno prevalgono largamente i lati positivi. Questo bilancio è stato però realizzato anche grazie a una leadership molto lucida ed efficace, capace di resistere all’inimicizia di Obama e ora dell’Unione Europea, di trovare canali di alleanza o almeno di intesa con vecchi nemici come l’Egitto, l’Arabia Saudita e l’Unione Sovietica, estremamente attiva nello stabilire nuovi rapporti, nel cogliere il momento delle iniziative e quello delle ritirate strategiche. Questa direzione porta il nome di Bibi Netanyahu, un grande statista che merita di essere paragonato a Ben Gurion, a Golda Meir, a Begin. Non tutto quel che ha fatto e che ha evitato di fare è naturalmente perfetto, ci sono stati limiti ed errori. Ma non esiste probabilmente oggi al mondo un governante capace di realizzare tanto di fronte a tanti ostacoli. Netanyahu governa da molti anni e sono in tanti a volerlo sostituire, magari usando delle accuse di corruzione francamente ridicole (si parla di regali di vini e sigari, o al contrario del fatto che come primo ministro abbia appoggiato il rinnovamento della flotta di sottomarini che sono un’arma essenziale per un paese che oggi ha ingenti investimenti nei campi di gas offshore e che dipende dal mare per buona parte dei propri rifornimenti - oltre che del veicolo della dissuasione finale contro un possibile attacco atomico).
Il primo auspicio per il 2018 è che dunque il governo che ha lavorato bene continui normalmente il suo incarico fino alle elezioni del 2019. Sotto la sua guida, speriamo che il paese riesca ad evitare i propositi aggressivi di Iran, Hezbollah, Siria, Hamas, che riesca a continuare il suo straordinario percorso economico, scientifico, tecnologico. Che le tensioni interne in tema religioso e sociale si sviluppino nel senso del dialogo e dell’integrazione. Che il terrorismo continui a fallire i suoi obiettivi. Che l’Europa fallisca la sua guerra antisemita per procura. Che Trump mantenga le sue promesse e che anch’egli superi i tentativi di eliminarlo non con le elezioni ma con complotti giudiziari. Insomma che il 2018 prosegua e sviluppi il percorso dell’anno appena concluso.
Una cosa non riesco a sperare davvero, cioè che vi sia da parte dei palestinisti quel tanto di buon senso necessario per capire che gli ebrei sono in Israele per restarci e che non si faranno né logorare né massacrare e che dunque debbono farsene una ragione e accettare l’esistenza di uno stato ebraico - che è la premessa per qualunque accordo di pace. Non credo che questo potrà avvenire, purtroppo. Gli accordi di Oslo hanno importato in Israele e definito “unico rappresentate del popolo palestinese” un gruppo di terroristi, che sanno fare solo il terrorismo e credono solo in questo: non hanno imparato nulla d’altro in un quarto di secolo. Il che non significa naturalmente che non vi siano arabi che apprezzano la convivenza con Israele, la democrazia, la possibilità di vivere bene e di partecipare al progresso collettivo. Semplicemente non hanno la forza o il coraggio di imporsi. Non occorrerebbe che rovesciassero subito l’Autorità Palestinese, che è una dittatura sanguinosa; basterebbe che smettessero di votare i filo-terroristi alle elezioni israeliane per dare un contributo importante. Non posso dunque sperare nella pace, mi limito ad augurarmi la continuazione di uno status quo che certamente lascia spazio a dolorosissimi episodi di microterrorismo, ma appare oggi il migliore degli equilibri possibili in quella regione. Diciamolo: per un arabo è infinitamente meglio sul piano della vita concreta essere cittadino israeliano che essere non solo siriano o yemenita o libico, ma anche giordano o egiziano. E per un ebreo è oggi sicuramente più sicuro e produttivo vivere in Israele che in Europa.
Dunque buon 2018 a Israele, miracolo del mondo contemporaneo - e anche ai lettori che partecipano al nostro sforzo quotidiano per difenderlo.
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