Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 24/12/2017, a pag1/25, con il titolo "Se l'America dà un nome agli avversari" l'analisi di Maurizio Molinari
Maurizio Molinari
Con la pubblicazione delle 55 pagine della «Strategia per la sicurezza nazionale» l’amministrazione Trump ha definito il proprio approccio all’attuale stagione di crisi internazionali: una muscolosa realpolitik. Richiamandosi alla formula reaganiana «Preservare la pace con la forza», il documento identifica per nome i tre gruppi di avversari degli Stati Uniti e degli alleati. Primo: le «potenze revisioniste» di Cina e Russia intenzionate a ridisegnare il mondo puntando, rispettivamente, ad espellere gli Usa dal Pacifico ed a costruire una sfera di egemonia nell’Eurasia «separando l’America dagli alleati». Secondo: gli «Stati canaglia» di Iran e Nord Corea che sostengono il terrorismo, minacciano i vicini e sviluppano armi di distruzione di massa. Terzo: i gruppi jihadisti come Isis e Al Qaeda accomunati da «un’ideologia islamista radicale che promuove la violenza» ovunque possibile, mantenendo aperto il fronte del terrorismo che aggredì New York e Washington l’11 settembre 2001. Davanti a questa triplice sfida, gli Stati Uniti propongono alle democrazie occidentali una risposta basata sull’integrazione dei poteri politico, economico e militare, ispirata al «realismo dei principi» e capace di incalzare gli avversari su più fronti: rafforzare la difesa anti-missile contro le armi di distruzione di massa, braccare i jihadisti «fino alla loro fonte», proteggere il cyberspazio creando «difese a strati» civili-militari, rafforzare i controlli dei confini e la «resilience» - la capacità di resistenza - dei propri cittadini. La sovrapposizione fra identificazione degli avversari, realpolitik nell’approccio alle crisi e determinazione a promuovere la prosperità economica - nazionale e degli alleati - consente di avere, per la prima volta dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, una formulazione assai chiara della proiezione del potere americano nel mondo. Si tratta di un distacco netto dai predecessori: rispetto alla volontà del repubblicano George W. Bush di «promuovere la democrazia» Trump preferisce la realpolitik ed anziché «guidare dal sedile posteriore» come voleva fare il democratico Barack H. Obama esprime una volontà di leadership che si basa sull’«eccezione americana» perché «la nostra nazione è la più grande forza del bene che opera nel mondo». La strategia della Casa Bianca fa combaciare assieme, come tasselli di un mosaico, le mosse compiute dall’amministrazione Trump sin dall’insediamento: il confronto pragmatico con Mosca e Pechino per riequilibrare l’indebolimento Usa ricevuto in eredità da Barack Obama; la raffica di sanzioni e l’aggressività militare con Pyongyang e Teheran per metterle sulla difensiva; l’uso massiccio della forza contro i gruppi jihadisti in Medio Oriente e Maghreb per demolirne i santuari; la cooperazione con gli alleati nel cyberspazio per proteggersi dal tentativo hacker di portare scompiglio nelle democrazie. Ciò significa che, a dispetto delle ombre del Russiagate e della forte conflittualità politica interna, il presidente Trump è riuscito - grazie al team composto da James Mattis, H. R. McMaster e John Kelly - a darsi una politica di sicurezza nazionale capace di articolare principi, politiche regionali e singoli interventi. L’interrogativo riguarda ora gli alleati ovvero se i partner della Nato sceglieranno di seguire Trump sulla strada di una muscolosa realpolitik: tanto determinata a far arretrare Mosca e Pechino quanto a disinnescare le minacce regionali di Iran e Nord Corea, ed a bersagliare senza tregua i seguaci della Jihad del Califfo. Per avere un’idea di quanto si prepara bisogna guardare verso Kiev: la decisione del Pentagono di fornire missili anti-tank alle forze ucraine è destinata a mettere in difficoltà i filo-russi sul campo di battaglia. In attesa di sapere quale sarà la riposta di europei, britannici e canadesi al passo compiuto da Trump possono esserci pochi dubbi sul fatto che gli avversari di Washington sono già all’opera per tentare di ostacolarne la strategia. Ad evidenziarlo con chiarezza è stato il dibattito all’Assemblea Generale dell’Onu su Gerusalemme perché ha visto proprio i quattro Paesi più avversari degli Usa - Russia, Cina, Iran e Corea del Nord - fare quadrato attorno alla mozione pro-palestinese all’unico fine di sfruttare la tradizionale maggioranza anti-israeliana dell’aula per infliggere a Washington una sconfitta politica. Questo spiega la brusca reazione della Casa Bianca contro i Paesi Onu che le hanno votato contro: la battaglia su Gerusalemme è solo il tassello di un conflitto più grande, che ha in palio gli equilibri globali.
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