La nuova strategia di Donald Trump
Analisi di Antonio Donno
Che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite avrebbe, con insolita velocità, condannato l’iniziativa del presidente Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, era cosa perfettamente prevedibile. Il veto americano ha bloccato la risoluzione, ma il voto dell'Assemblea Onu di ieri è stato una pesante sconfitta del presidente e di Israele. Su IC di oggi commenti e crinache.
Tuttavia, a differenza di quanto alcuni giornali hanno scritto, l’isolamento degli Stati Uniti in seno alle Nazioni Unite fa parte della nuova strategia trumpiana nelle relazioni internazionali. È una decisione presente nel discorso inaugurale della presidenza Trump e di tutti i discorsi tenuti successivamente. Essa si basa sul presupposto che gli Stati Uniti hanno il diritto di assumere le decisioni che più ritengono opportune nella conduzione della loro politica estera e che le organizzazioni internazionali non possono e non devono in alcun modo condizionare l’azione di Washington.
Così, la decisione di Trump sulla questione di Gerusalemme è l’ennesima conferma di questa nuova politica, dopo il rifiuto degli accordi sul clima e altro.
La strategia del presidente americano può essere ispirata all’unilateralismo, per usare un termine diffuso tra gli analisti, ma non è una novità nella storia delle relazioni internazionali degli Stati Uniti. Lo è, invece, se tiene conto della realtà globale attuale. Essa, in verità, è caratterizzata da un diffuso unilateralismo, inteso come progressivo sgretolamento di quella unità di intenti che in qualche modo aveva tenuto insieme soprattutto il blocco occidentale, ma non solo. In Europa, ciò è evidente con l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea e con il rifiuto dei paesi europei dell’Est di aderire alle politiche sui migranti. Ma quello che più balza agli occhi, e che non ha avuto l’attenzione che si merita, è la tendenza delle grandi potenze a svolgere, sul piano internazionale, una politica unilaterale, tendente a fare gli interessi nazionali sopra ogni cosa: la Cina, la Russia, la Turchia (ormai, quest’ultima, è da considerarsi fuori dalla Nato) e l’Iran giocano un ruolo individuale nello scenario internazionale. L’Onu è divenuta una scatola vuota, in cui si raggiunge un accordo solo per condannare Israele. Di tutto ciò si è resa conto l’Amministrazione Trump, che ha operato una svolta a 360 gradi rispetto alle politiche di Obama. E la decisione su Gerusalemme rientra a pieno titolo nei nuovi indirizzi dell’azione internazionale di Trump; anzi, dal punto di vista della stretta urgenza politica, la mossa del presidente americano riporta in qualche modo gli Stati Uniti nell’agenda mediorientale, che sembrava dettata da altri.
Ma il ritardo americano è ancora grande, anche se le 53 pagine del documento National Security Strategy of the United States of America (December 2017), varato qualche giorno fa, ridefiniscono i piani per una nuova autorevole presenza degli Stati Uniti nello scenario internazionale. Non è un caso che il documento si apra con un riferimento alla situazione del Medio Oriente, al terrorismo islamista e ai rogue States presenti nella regione. Per affrontare questi pericoli gli Stati Uniti devono perseguire, innanzitutto, i propri interessi, insieme ai loro alleati: “È una strategia fondata su unrealismo di principio [principled realism] che è guidato dai risultati, non dall’ideologia”. Si tratta di un’affermazione cruciale, che rappresenta una svolta rispetto alla political correctness degli anni di Obama, che ha finito per fare gli interessi dei nemici degli Stati Uniti, in particolare l’Iran. Di conseguenza, “impegnarsi nel mondo, comunque, non significa che gli Stati Uniti debbano abbandonare i loro diritti e doveri come stato sovrano o compromettere la loro sicurezza”.
La sicurezza e gli interessi degli Stati Uniti nell’area mediorientale sono legati a Israele, in primo luogo, e il riconoscimento di Gerusalemme è forse l’atto più importante della nuova strategia americana fondata sui preminenti interessi nazionali del paese, in cui spicca la capacità di Israele di far fronte all’espansione dell’Iran. Ancor più che nel passato, oggi Israele ha, per gli Stati Uniti, un ruolo cruciale di deterrenza in una regione che ha perso i connotati politici che l’avevano contraddistinta per tutto il secondo dopoguerra. “Preservare la pace per mezzo della forza” è il titolo del terzo capitolo del documento americano. “Il fattore di continuità nella storia è la forza”, si legge in apertura. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele è un atto di forza che si inscrive perfettamente nella dottrina di Trump, un atto di forza indispensabile sia per Israele, sia per gli Stati Uniti.
L’accordo con l’Iran, ai tempi di Obama, aveva dimostrato la debolezza degli Stati Uniti, oltre che la loro sudditanza nei confronti degli alleati europei, o presunti tali.“America First”, dunque, significa recuperare la centralità degli interessi americani sia all’interno, sia nello scenario internazionale. Nel Medio Oriente tale centralità è condivisa con Israele: “Oggi, le minacce provenienti dalle organizzazioni terroristiche e dall’Iran stanno ad indicare che Israele non è la causa dei problemi della regione. Gli Stati Uniti hanno compreso sempre di più di avere interessi comuni con Israele nel combattere le minacce comuni”. Le minacce contro Israele sono, dunque, le stesse minacce che gli Stati Uniti devono affrontare in un mondo che nel documento viene considerato dominato nuovamente dalla competizione, come si è detto all’inizio di questo articolo.Il realismo di Trump, allora, non è puro pragmatismo, cioè un modo di affrontare di volta in volta la realtà a seconda delle circostanze, ma un principio di azione fondato sulla assoluta preminenza degli interessi americani che possono o non possono coincidere con quelli di chi condivide l’azione americana. Nel caso della realtà mediorientale odierna, gli interessi degli Stati Uniti si coniugano con quelli di Israele.
Non è stato così per tutti gli otto anni della presidenza di Obama. Anzi, in quel periodo l’azione di Obama è andata contro gli interessi di Israele, e contro gli interessi stessi degli Stati Uniti nel Medio Oriente. Sulla politica obamiana verso la regione si sono avute critiche anche all’interno del suo staff, ma tutto è stato messo a tacere per l’influenza della stampa liberal americana e di quella europea sull’opinione pubblica occidentale. La questione centrale che ha posto sottotraccia le critiche a Obama è stato l’accordo sulle armi nucleari con l’Iran. Intorno a questo accordo si è avviluppato un consenso generale e indiscriminato che ha finito per oscurare ogni altra questione e dato al presidente americano una fama che va ben al di là dei suoi effettivi meriti. Ma oggi, alcuni problemi spinosi stanno venendo al pettine.
Qualche giorno fa, Politico.com, autorevolissima testata americana, ha rivelato, grazie al lavoro investigativo di Josh Meyer, le responsabilità gravissime dell’Amministrazione Obama su una questione riguardante il gruppo terroristico di Hezbollah. Nel 2008 The Drug Enforcement Administration, sulla base di investigazioni dettagliate, dette vita a una campagna (il Progetto Cassandra), intesa a contrastare il gruppo terroristico di Hezbollah, che, accanto all’azione militare contro Israele, si stava specializzando in un grande traffico di droga da spedire anche negli Stati Uniti. Ma, si legge nel documento, “man mano che il Progetto Cassandra si andava evolvendo nei termini della gerarchia della cospirazione, i funzionari dell’Amministrazione Obama posero una serie di ostacoli insormontabili sulla sua strada, sulla base delle interviste rilasciate da dozzine di persone, che erano presenti ai fatti e che hanno parlato in molti casi per la prima volta su questioni tenute segrete, e di una rassegna di documenti governativi e di registrazioni”. Per di più, “il Dipartimento di Stato respinse le richieste di fornire informazioni di grande importanza ai paesi dove i terroristi di Hezbollah potevano essere arrestati”. Perché l’Amministrazione Obama si oppose all’implementazione del Progetto Cassandra? Quando Obama entrò alla Casa Bianca, nel 2009, sostenne di voler riavvicinare gli Stati Uniti al mondo islamico e che la politica di Bush era stata fallimentare. Occorreva, dunque, por mano a una nuova iniziativa diplomatica. John Brennan fu designato a ricucire i rapporti con Teheran. Egli disse che era indispensabile agire perché vi fosse “un significativo inserimento di Hezbollah nel sistema politico del Libano”. Di più: “Hezbollah è un’organizzazione molto interessante”, evoluta “dallo stato terroristico allo stato di esercito regolare e, ultimamente, in un partito politico con rappresentanti nel Parlamento libanese e nello stesso Gabinetto”. Questa operazione di attribuzione di un nuovo ruolo a Hezbollah, continua il documento, era volta a riavvicinare l’Iran sulla questione nucleare, e si tradusse “nella riluttanza a contrastare aggressivamente i capi di Hezbollah, secondo il Progetto Cassandra” e la sua stessa ala militare. Inoltre, Il Dipartimento di Stato sosteneva che “Hezbollah, dopotutto, era una forza politica di primo piano in Libano, che forniva servizi umanitari[alla popolazione] che non era necessariamente consapevole delle sue azioni negative”. Il Progetto Cassandra, inoltre, secondo le affermazioni dell’agente speciale Jack Riley, prevedeva l’estradizione di Ali Fayad, esponente di spicco di Hezbollah, dalla Cecoslovacchia, ma non fu data mai l’autorizzazione. David Asher, altro funzionario dell’Amministrazione, riferì che in varie riunioni si sosteneva che i negoziati con Hezbollah stavano per raggiungere un esito positivo e che si pensava di “mettere su un’ampia coalizione nel Medio Oriente, che includesse Hezbollah, per combattere contro lo Stato Islamico”. Insomma, l’Amministrazione Obama era pronta a dare una mano al fronte sciita per combattere quello sunnita. Questa politica, in definitiva, era volta a ristabilire legami significativi con Teheran al fine di giungere all’accordo sulle armi nucleari.
Antonio Donno