In ricordo di Nava Semel
Commento e recensione di Giorgia Greco
Nava Semel
Amava molto l'Italia e l'Italia la ricambiava accogliendola sempre con entusiasmo quando arrivava per presentare un nuovo romanzo o per tenere conferenze in occasione della Giornata della Memoria.. Pochi giorni fa si è spenta a soli 63 anni a seguito di una grave malattia la scrittrice israeliana Nava Semel, una delle voci più autorevoli della letteratura israeliana contemporanea. Figlia di genitori sopravvissuti alla Shoah, era capace di descrivere con grande sensibilità i sentimenti delle “seconda generazione” e nei suoi romanzi, tradotti in molte lingue, i temi della Memoria e della Shoah sono sempre presenti. Per la sua opera di scrittrice e sceneggiatrice ha ricevuto riconoscimenti sia in Israele sia all’estero, fra gli altri il premio americano National Jewish Book Award, il Women Writers of the Mediterranean Award, l’Israeli Prime Minister’s prize. In Italia sono stati pubblicati alcuni romanzi come “Il Cappello di vetro”, “Lezioni di volo”, “E il topo rise” e “Testastorta”, quest’ultimo ambientato in Italia, a Borgo San Dalmazzo, negli anni della seconda guerra mondiale, delle persecuzioni naziste e della Resistenza. Ho incontrato Nava Semel per la prima volta a Bologna grazie alla mia insegnante di ebraico che l’aveva invitata all’Università per un seminario sulla Shoah. Di Nava mi aveva colpito la passione e la vivacità che poneva nel confrontarsi con gli studenti di ebraico che l’ascoltavano rapiti. In quei giorni è nata una sincera amicizia che si è nutrita negli anni di scambi di corrispondenze e qualche breve incontro durante le sue visite in Italia, spesso anche a Bologna: un legame che la distanza geografica non ha scalfito e che è stato di vero conforto quando dopo il grave lutto che mi aveva colpito le sue parole di rara sensibilità hanno voluto testimoniarmi la vicinanza e l’ affetto di una donna speciale. Vorrei ricordarla invitandovi alla lettura del suo ultimo romanzo “Testastorta” di cui vi ripropongo la recensione apparsa su queste pagine in occasione dell’uscita del libro nel 2014.
Testastorta
Nava Semel
Traduzione di Sara Ferrari
Salomone Belforte editore
euro 22
La copertina
Una delle figure più talentuose del panorama letterario israeliano, Nava Semel, nata a Tel Aviv da genitori sopravvissuti alla Shoah intrattiene un rapporto speciale con l’Italia, un paese che ama molto e nel quale si reca spesso per incontrare i suoi lettori, soprattutto giovani ai quali desidera trasmettere la sua eredità di “figlia dell’Olocausto”. Poiché ha vissuto l’infanzia all’ombra del campo sterminio, la tragedia della Shoah è diventata parte della sua identità, condizionandone per sempre l’esistenza. In una recente intervista ha affermato che “…l’Olocausto è parte della mia pelle, della mia anima; è la mia identità e mi rendo conto di quanto sia difficile trasmetterne la Memoria”. Un compito imprescindibile che Nava Semel assolve in modo magistrale attraverso la scrittura. Tutti i suoi romanzi - fra i quali “Il cappello di vetro”, “E il topo rise” - sono opere commoventi sul valore della Memoria, sulla sua presenza costante nella coscienza di ogni essere umano e sull’importanza della trasmissione del Ricordo alle generazioni future di ciò che accadde a milioni di esseri umani innocenti durante la seconda guerra mondiale.
Se nel precedente romanzo “E il topo rise” Semel ha affrontato il tema dei sopravvissuti, dei loro ricordi e della difficoltà di raccontare, nella sua ultima opera la scrittrice israeliana si dedica ai “salvatori”, quei Giusti che hanno messo a repentaglio la vita per nascondere gli ebrei e salvarli dalla deportazione nei campi di sterminio. Testastorta, questo il titolo del libro che arriva ai lettori italiani nella splendida versione di Sara Ferrari, studiosa di narrativa, poesia e cultura ebraica contemporanea, è ambientato nel 1943 durante l’occupazione nazista a Borgo San Dalmazzo, un paesino rurale del Piemonte. Un viaggio compiuto dall’autrice sette anni fa in questa regione d’Italia – nel corso del quale visitando un piccolo villaggio di campagna apprese che in quei luoghi avevano nascosto degli ebrei durante la guerra - è stato lo spunto per dedicarsi alla stesura di Testastorta; un libro che ha impiegato sei anni a scrivere dedicandosi ad approfondite ricerche storiche sugli avvenimenti accaduti in quegli anni soprattutto in Piemonte e studiando in dettaglio la vita che si conduceva nei piccoli borghi contadini, dai modi di vestire alla preparazione del vino e della polenta. Il risultato è un’opera perfettamente riuscita capace di mescolare con sapienza narrativa fatti storici realmente accaduti a racconti di fantasia di straordinaria efficacia. Dopo l’esperimento letterario innovativo proposto dall’autrice nell’opera “E il topo rise”, un libro che intreccia mirabilmente il presente, il passato e il futuro, per questa sua ultima fatica, che si compone di due parti, Nava Semel affida principalmente a due voci narranti lo svolgersi della trama.
La prima è quella di Tommaso, un orfanello dalla fantasia fervida, “adottato” da Maddalena, una giovane cantante d’Opera che in realtà è sua madre e da Domenica, la nonna di Tommaso, una contadina avvezza al duro lavoro, dal carattere indomito che è riuscita ad un prezzo altissimo a liberarsi di un marito violento e ubriacone. Le due donne celano un segreto che, se scoperto, costerebbe loro la vita: in una soffitta angusta in una parte disabitata della casa si nasconde un musicista ebreo, Salomone Levi, l’uomo a cui Maddalena ha donato il cuore e la speranza di sfuggire ai nazisti: è lui il padre del piccolo “orfanello” che non ha mai potuto abbracciare se non per pochi attimi dopo la nascita. Alla narrazione di Tommaso, nella prima parte del libro, si alterna la voce di un’infermiera che, al capezzale di un malato in coma la cui identità si svelerà solo alla fine, legge il racconto sconvolgente di avvenimenti e personaggi a lei sconosciuti, in un estremo tentativo di risvegliarlo . Ma chi è il personaggio misterioso che le ha affidato un compito così gravoso oltre alle normali cure che competono a un’infermiera? L’autrice dispiega un racconto dalle tonalità intense e a tratti poetiche dove spiccano in questa prima parte figure indimenticabili: innanzitutto il piccolo Tommaso, un bambino cresciuto in un orfanotrofio che però non ha perso il gusto della vita, la tenerezza nei confronti delle sue benefattrici, la capacità di commuoversi dinanzi al mistero della natura e una fantasia così vivace che gli consente di immergersi in un mondo alternativo, lontano dalle brutture della guerra.
A parere di chi scrive il piccolo Tommaso è la figura più intensa e al contempo complessa di tutto il libro, nel quale l’autrice ha dispiegato non solo una potente arte narrativa ma anche una straordinaria capacità di penetrare nell’anima e nel vissuto di un bambino con una delicatezza e una sensibilità davvero rari. Un personaggio che si conficca nel cuore del lettore e ci resta a lungo. Non meno significativa è la figura di Maddalena il cui amore per Salomone Levi la induce, suo malgrado, ad accettare le attenzioni moleste di Hans-Dieter, un nazista che, anziché al fronte russo, è stato assegnato al reparto di stanza a Borgo San Dalmazzo con l’incarico di rastrellare ebrei e traditori. Questo legame inviso alla popolazione contadina (che non esita a definirla “puttana dei tedeschi”) è però una perfetta copertura per tenere lontana la Gestapo dalla cascina dove si nasconde l’uomo che ama e il padre di suo figlio. Il groviglio di sentimenti, di emozioni, di sensi di colpa che agitano la coscienza di Maddalena è analizzato con magistrale capacità introspettiva dall’autrice che riesce, come poche altre, a far emergere la complessità dell’animo femminile. Domenica invece è il simbolo di una donna che, pur vessata dalle prepotenze di un marito ubriacone, riesce a tenergli testa con fermezza per consentire alla figlia di esprimere il proprio talento per la musica; una passione che la porterà nella città di Torino a entrare in contatto con il direttore d’orchestra Salomone Levi e a dare una svolta definitiva alla sua esistenza. Domenica, mamma e nonna generosa, rimarrà sempre al fianco della figlia condividendo i rischi e le incognite di scelte molto coraggiose.
Sullo sfondo si muove un mondo contadino dalle mille sfaccettature che l’autrice descrive cogliendo ad arte lo spirito di quegli anni bui: accanto all’irriducibile maestro fascista dai modi violenti e grezzi, si collocano il parroco e il sagrestano uniti dalla comune missione di salvare gli ebrei dalla deportazione. Nella seconda parte del libro spicca la figura di Salomone Levi che si delinea pagina dopo pagina dal racconto che il giovane musicista dedica al figlio Tommaso (scrivendo sui fogli bianchi all’inizio dedicati alla composizione di un’opera) di cui conserva con infinito amore i piccoli doni che il bimbo, attraverso una corda che passa dal camino, invia a colei che crede essere una principessa. Tramite la figura di Salomone l’autrice volge uno sguardo addolorato ai soprusi e alle umiliazioni che gli ebrei hanno subito durante il periodo fascista e le persecuzioni naziste, ma riflette anche sulle contraddizioni e le incertezze che albergano nell’animo di un ebreo laico dinanzi al mistero della divinità. A un certo punto del libro, da quella bacchetta nascosta sotto il cuscino del malato ricoverato in un ospedale di Tel Aviv, il lettore comprende l’identità dell’uomo ma il romanzo di Nava Semel riserva un inaspettato colpo di scena finale che non sveliamo al lettore per lasciargli intatto il piacere della lettura di un romanzo rigoroso e appassionante.
Con “Testastorta”, il nomignolo riservato a Tommaso, Nava Semel ci ha regalato un romanzo intriso di storia, di contenuti, di intrecci delineando i protagonisti in modo minuzioso e intelligente, analizzandone i punti di forza, le debolezze e le contraddizioni, grazie ad una prosa intensa e scorrevole. Le diverse parti del racconto si snodano così tra le pagine come melodie differenti in una sorta di contrappunto poetico-musicale tenendo il lettore avvinto fino all’ultima pagina con la consapevolezza che la Memoria è sempre speranza. Tenerla in vita non è una garanzia assoluta che tali eventi non si ripetano più ma è il miglior antidoto contro l’oblio inarrestabile del tempo. “…. Chi avrebbe mai saputo dell’esistenza di Tommaso, Maddalena e Domenica? Chi li avrebbe estratti dalla pappa appiccicosa dell’oblio per soffiare nuovamente dentro di loro per un istante la vita che avevano? Senza il suo paziente, infermiera, la storia non esiste, e senza questi personaggi quest’uomo non avrebbe vita. Ho raccolto la sua bacchetta. Eccola qui, sotto il cuscino, così vicina alla sua testa.”
Giorgia Greco