Riprendiamo da AVVENIRE di oggi, 19/12/2017, a pag.14, con il titolo "Gerusalemme, gli Usa isolati", il commento di Luca Foschi; a pag. 3, con il titolo "Una nuova comunicazione può salvare il Medio Oriente", il commento di Michele Zanzucchi.
AVVENIRE pubblica due articoli contro Israele, nella tradizione consolidata del quotidiano dei vescovi.
Il pezzo di Luca Foschi sottolinea l'isolamento dello Stato ebraico e degli Stati Uniti, ma non scrive che la maggioranza non ha automaticamente ragione.
Michele Zanzucchi, invece, si dilunga sulla necessità, in Medio Oriente, di comunicare in modo diverso e nuovo per risolvere i conflitti, una frase che vuole dire tutto e niente. Non ci comunica quale. restiamo in attesa.
L'OSSERVATORE ROMANO, invece, titola un pezzo che non riprendiamo "Pence in Vicino oriente senza incontrare i palestinesi". Il titolo non rende conto della realtà, perché Pence aveva in programma un incontro con Abu Mazen. Se è saltato è perchè lo stesso Abu Mazen l'ha annullato. Il titolo dice tutto il contrario. OR non è nuovo a attacchi preventivi contro l'Amministrazione Trump, nella illusione che compiacere la parte palestinista serva a qualche cosa.
Mike Pence
Ecco gli articoli:
Luca Foschi: "Gerusalemme, gli Usa isolati"
Bhaa Aldin sistema i banchi fra i passaggi del quartiere cristiano di Nazareth, a pochi metri dalla Basilica dell'Annunciazione. Sono rare le luminarie e sui balconi antichi prevalgono luci e ombre. «Ci prepariamo alla festa», spiega il giovane mostrando sul telefono le immagini del Natale passato. I carruggi diventeranno il fondale per i musicisti e i giocolieri, per balli e giochi, e la cucina condivisa di un quartiere che resta umile. «Dobbiamo farlo per i bambini. Noi festeggeremo con la tristezza nel cuore per ciò che sta accadendo a Gerusalemme. Io sono musulmano, ma per me Gesù è come Maometto. L'amministrazione ha fatto la scelta giusta». Mercoledì scorso un portavoce del Comune aveva annunciato che ci sarebbero stati dei tagli alle spese per le celebrazioni in risposta alla decisione del presidente Trump di spostare l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Sabato, quando la notizia aveva ormai conquistato l'attenzione dei media internazionali, il sindaco musulmano Ali Salem ha invece negato vi sia un qualsiasi cambiamento sostanziale nel programma per le feste di Natale. «L'anno scorso abbiamo lavorato dieci, venti, cinquanta volte di più. Il governo centrale investe molto denaro nel "turismo interno". Sarebbero venuti non solo da Israele ma da tutto il mondo, invadendo le strade. Forse è per via degli scontri: era tutto pronto. Poi le luci, i palchi e gli schermi sono stati portati via» spiega Iusef, ristoratore cristiano che esercita ai bordi della città vecchia. «Ieri hanno acceso l'albero, poi tutti a casa, senza festeggiamenti». Il grande cono illuminato si solleva nella piazza che ospita la chiesa ortodossa. La domenica ha un tepore primaverile e avvolge gli avventori di caffé e ristoranti, i bambini che s'inseguono con i fucili dalle luci psichedeliche, insistono per avere una mela rossa coperta di melassa fra i banchetti, i fumi e i gingilli della Strada dei Pellegrini. Cinesi e argentini riposano dopo la maratona turistica. Scuotono la testa, esitano davanti a una domanda sulla situazione politica che li circonda. Sui lati del piccolo proscenio natalizio vigila rilassata la polizia israeliana. Le luminarie continuano sulla lunga via Paolo VI, come un confine. Oltre diventano rare, sui muri convivono i manifesti dei concerti in programma e le chiamate alle manifestazioni di protesta. Solo il minareto della moschea al-Salam luccica per la Natività.
Michele Zanzucchi: "Una nuova comunicazione può salvare il Medio Oriente"
Lo scenario mediorientale è un laboratorio straordinario per l'informazione digitale, per quella "infosfera" che gioca sulla tempestività degli eventi raccontati. Ormai si conoscono le ultime vicende in diretta, con parole e immagini che colpiscono l'immaginario collettivo e si scolpiscono nei circuiti cerebrali degli spettatori: Saad Hariri si dimette via schermi digitali dall'Arabia Saudita e poi dichiara di ritirare le dimissioni alla tv libanese; il Daesh perde l'ultima roccaforte siriana di Boukamal sotto i cellulari di Cnn, Bbc e al-Arabiya; Trump dichiara che trasferisce l'ambasciata a stelle e strisce a Gerusalemme con un tweet; Purin visita a sorpresa la Siria da vincitore seguito da uno stuolo di cameraman; mentre Erdogan e Muhammad bin Salman si contendono la supremazia in campo sunnita con continui messaggi mediatici. Contemporaneamente in Medio Oriente trionfano le fake news, o semplicemente le illazioni che clic dopo clic, di telefonino in telefonino si trasformano in verità assolute. La libertà di stampa può anche continuare a sussistere (non ovunque, comunque), ma è il concetto stesso di verità o di veridicità che viene ridicolizzato.
D'altronde è la "propensione araba all'iperbole e all'enfasi", come scriveva nel suo L'infelicità araba il giornalista libanese Samir Kassir assassinato nel 2005, che accentua l'effetto delle notizie. La guerra è da sempre, nella storia dell'informazione, l'occasione privilegiata per la diffusione di false notizie, il luogo dove gli strumenti della propaganda cercano di ingannare l'avversario. La penna fulminante di Karl Kraus l'aveva scritto: «Riguardo all'invenzione della polvere da sparo e dell'inchiostro da stampa, ciò che andrebbe subito ammesso è il notevole significato che la simultaneità della loro invenzione ha avuto per il genere umano». Col risultato, per il cittadino normale, di non capirci più nulla o quasi. Si ha nozione degli eventi dal punto di vista militare, politico o geo-politico, ma si fa fatica ad afferrare il senso complessivo degli eventi. Governare una tale info-data flood, una tale inondazione di info e commenti, è impresa titanica. Forse impossibile. Certamente bisognerebbe fidarsi degli osservatori con più esperienza, anche se di solito le analisi più acute scivolano nell'immenso calderone di Internet e solo poche decine di persone arrivano a leggere articoli di grande interesse. Potrebbe non essere l'informazione, ma la comunicazione, quella reale, quella interpersonale, se non a salvare il Medio Oriente almeno a preservarlo da guai eccessivi, dal ripetersi ad esempio di una tragedia ingarbugliata come quella del Daesh. In queste terre affascinanti, in effetti, anche i problemi più complessi possono essere risolti con piroette inimmaginabili se l'informazione lascia spazio alla comunicazione, cioè se si lascia da parte l'apparenza delle dichiarazioni ufficiali per dare invece il giusto peso alla negoziazione dal vivo, se si fanno toccare i corpi, se ci si parla a quattr'occhi, se si gettano ponti reali tra le persone. Si prenda ad esempio l'affaire Hariri: il presidente francese Macron e il cardinale maronita Béchara Boutros Rai hanno preso la via di Riad per stringere la mano all'astro nascente Muhammad bin Salman trovando così una soluzione apparentemente improponibile. Così Erdogan il 13 dicembre ha convocato una riunione dell'Organizzazione della cooperazione islamica (Oic per gli anglofoni o Oci per i francofoni), non tanto per quanto è stato dichiarato pubblicamente su Trump e Gerusalemme (parole scontatissime), ma per l'infinita agenda di incontri che hanno "costretto" a stringersi le mani leader musulmani sauditi e iraniani, qatarioti e kuwaitiani, turchi e palestinesi, anche coloro che in questo periodo sono in guerra tra loro "via media". La comunicazione è in effetti fatta di parole ma anche di gesti, di immagini ma anche di odori e sapori, di tè alla menta e di caffè al cardamomo. La diplomazia stessa deve riscoprire la verità ricordata da Papa Francesco nel suo recente libro-intervista con Dominique Wolton: «Non c'è vera comunicazione senza gratuità. La gratuità significa essere capaci di perdere tempo». L'informazione oggi non sa perdere tempo. Ma non s'instaura una vera comunicazione senza che si conoscano e comprendano i vari sistemi di pensiero di coloro che si confrontano.
Lo scenario mediorientale ha tutte le caratteristiche di un immenso teatro nel quale diversi attori interpretano la loro parte: le parole pronunciate svelano tradizioni e culture, ma non possono essere prese alla lettera, pena gravi fraintendimenti. Nel teatro mediorientale, inoltre, o lavorano anche compagnie che vengono da lontano e che rappresentano commedie e tragedie che poco hanno a che vedere con i sistemi di riferimento locali. Pensiamo ai russi e agli statunitensi, ai francesi e agli italiani, agli australiani e ai cinesi. Ogni attore, ogni compagnia porta con sé il suo sistema di riferimenti concettuali, gestuali, interpretativi, spesso sconosciuti agli altri attori che salgono sul palcoscenico mediorientale. Solo una comunicazione "reale", "fisica", che cerchi di capire i sistemi di riferimento culturali può rimettere in moto la via della mutua comprensione, del negoziato, la via alla gestione dei conflitti e della pacificazione. un episodio minore, di cui sono stato testimone anni fa, può forse aiutare a capire la necessità di passare dall'informazione alla comunicazione qui in Medio Oriente. All'indomani della seconda guerra della dinastia Bush in Iraq, era l'aprile 2003, alla frontiera con la Giordania scorsi un soldato Usa che cercava di mantenere in una fila ordinata centinaia di auto di arabi. Sparò qualche raffica di mitra per aria e la fila si ricompose per qualche istante; poi, per la forza dell'abitudine, si sparpagliò di nuovo. Rivolsi allora la parola a quel militare impaurito e magrolino, sommerso di armamentari pesantissimi alla Rambo: veniva dal Wisconsin, aveva 18 anni, non sapeva dov'era l'Iraq sulla carta geografica, non aveva nessuna nozione dell'Islam. Gli feci stringere la mano a qualche autista arabo stressato dalla guerra e dalla temperatura a 40 gradi. Accettò persino un caffè che uno di loro gli versò in un bicchiere non proprio pulito. ll soldatino non sparò più raffiche di mitra e un certo ordine si ristabilì spontaneamente sulla fila di auto. Nel calderone mediorientale ci sono in campo praticamente tutti i grandi attori, mondiali o regionali che siano. Arrivano con le loro potenze di fuoco militari, finanziarie, di intelligence e informative. Ma riflettono poco o nulla sulle conseguenze, sul terreno, di uno scontro tra sistemi di pensiero e di azione tanto diversi. L'azione pacificante dell'Unifil è stata ed è un esempio della capacità performativa della comunicazione vera, quella che fa stringere mani, bere caffè assieme e avvicinare menti. Non ci sarà mai pace in queste terre se non si metteranno a confronto i tanti sistemi di pensiero in campo e, soprattutto, se non si rispetteranno quelli locali.
Per inviare a Avvenire la propria opinione, telefonare: 02/6780510, oppure cliccare sulla e-mail sottostante