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Il Foglio Rassegna Stampa
19.12.2017 Quel che resta dello Stato islamico
Analisi di Daniele Raineri

Testata: Il Foglio
Data: 19 dicembre 2017
Pagina: 0
Autore: Daniele Raineri
Titolo: «I clown tristi dell'Isis»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 19/12/2017, a pag.I con il titolo "I clown tristi dell'Isis" l'analisi di Daniele Raineri.

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Daniele Raineri

 

L’idea demenziale che l’esercito di Abu Bakr al Baghdadi potesse costruire un Califfato nel cuore del medio oriente e da lì potesse allargarsi al resto della regione per vietare le sigarette, le telefonate e le parabole satellitari a decine di milioni di persone e uccidere i trasgressori nelle piazze, il tutto senza nemmeno una difesa aerea, non ha funzionato e lo Stato islamico è stato raso al suolo. E questo rende ancora più patetica la sorte dei suoi seguaci occidentali, partiti tardi dalle città europee per unirsi a un’utopia che si è sgonfiata in tre anni e presi in contropiede senza il tempo di inventarsi una scusa decente. Molti di loro sono stati catturati, aspettano il verdetto dei giudici – che in Iraq può portare all’impiccagione – e ora dicono ai giornalisti che li intervistano nelle prigioni: “Ero soltanto un cuoco” oppure “ero un infermiere” o ancora “non ero un combattente, non ho mai toccato un’arma”. La settimana scorsa trentotto uomini accusati di avere fatto parte dello Stato islamico e tra loro un iracheno che aveva anche il passaporto svedese sono stati impiccati nel carcere di Nassiriya, la città irachena che in Italia è conosciuta per l’attentato contro i militari nel novembre 2003. Due casi di occidentali catturati spiccano su tutti in questi giorni. Uno è quello del belga di origini marocchine Tarik Jadaoun, l’altro quello dell’adolescente tedesca Linda Wenzel. E’ il 17 maggio 2017, la parte ovest di Mosul è la scena di una battaglia “di un’inten - sità come non si vedeva dalla Seconda guerra mondiale” scrivono gli inviati americani tra l’esercito iracheno e lo Stato islamico che ancora controlla pochi chilometri quadrati nella Città vecchia. Aerei, elicotteri e artiglieria fanno a pezzi colpo dopo colpo gli edifici, i soldati guadagnano terreno con pazienza, quando mettono le mani sui combattenti nemici spesso li ammazzano sul posto, i civili scappano come possono e a volte finiscono in mezzo al fuoco, i morti di entrambe le parti restano sul terreno per settimane. Su Internet appare un lungo video di propaganda dello Stato islamico – di quasi quarantacinque minuti – che magnifica le capacità del gruppo di fabbricare le proprie armi e quindi di resistere all’assedio (la città è stata liberata poche settimane dopo). A circa metà del filmato arriva Tarik Jadaoun, con il nome di guerra di Abu Hamza al Beljiki. Fa un elogio dell’equipaggiamento “dato da Allah ai suoi guerrieri”, alcuni lanciamissili Strela di fabbricazione sovietica arrivati chissà come e in grado di colpire elicotteri e aerei, poi un sistema computerizzato per comandare una mitragliera con un joystick simile a quello dei videogiochi senza esporsi al fuoco nemico, poi ancora un piccolo mezzo telecomandato su cingoli che può portare una bomba verso le linee nemiche.

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Del resto uno studio sui foreign fighter occidentali ha scoperto che quelli tra di loro che hanno studiato sono in maggioranza ingegneri, quando si trovano incastrati in Siria e in Iraq mettono al servizio della guerra le loro competenze che però non cambiano il corso della guerra, fabbricano piccoli droni che lasciano cadere granate, autobombe con blindature artigianali, proiettili autoprodotti – e lo Stato islamico fa molta pubblicità a queste piccole trovate fai da te. Questa volta tocca a Jadaoun illustrare il campionario, poi esorta i musulmani “a importare la guerra nel cuore della Francia e del Belgio, per vendicare i figli dello Stato islamico uccisi dalle bombe in Iraq”. E’ l’ennesimo invito a compiere attentati e questa volta arriva direttamente da lui, che secondo i servizi di sicurezza del Belgio ha preso il posto di Abdelhamid Abaaoud – l’uomo che nel novembre 2015 diresse gli attacchi di Parigi e si fece saltare in aria quando pochi giorni dopo la polizia lo scoprì in un appartamento di Saint Denis. Mentre parla in un francese molto semplice Jadaoun sfoggia tutta l’iconografia dello Stato islamico che abbiamo imparato a conoscere in questi anni. Sulla testa ha il pakol, il berretto afghano di lana che non è per nulla adatto al clima del medio oriente ma che è stato adottato dai foreign fighter per significare la loro vicinanza ideale con i volontari che andavano a combattere contro i sovietici in Afghanistan negli anni Ottanta. A tracolla ha un fucile americano M- 16 e una mitraglietta tedesca Heckler & Koch Mp5, è chiaro che sono spoglie di guerra, non sono l’onnipresente fucile Kalashnikov. Capelli e barba sono incolti, per rispettare la profezia che dice che guerrieri con barbe e capelli lunghi arriveranno da est per fare sventolare in alto la bandiera dell’islam (Jadaoun arriva da ovest, dall’Europa, ma non si può stare a sottilizzare). Indossa i mezziguanti con le nocche rigide, che per i combattenti dello Stato islamico sono la citazione visiva di un famoso video del novembre 2014 (riguarda il massacro per decapitazione di venti prigionieri).

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La tuta mimetica è infilata dentro gli scarponi, perché i pantaloni non devono mai toccare terra, il vero credente ha sempre presente il rischio di contaminazione. Infine, l’orologio è al polso destro, perché così ha fatto il capo Abu Bakr al Baghdadi durante il famoso sermone alla moschea di al Nuri di Mosul (a poche centinaia di metri da dove Jadaoun parla) nel 2014 e perché, come una volta spiegò una fonte al Foglio, “bisogna distinguersi dai nazareni”, cioè da noi che portiamo l’oro - logio al polso sinistro. Attorno a lui c’è un panorama di rovine in fiamme, ma il belga ci teneva parecchio a lanciare il suo appello a fare attentati in Europa in perfetta uniforme da fanatico. Un abitante di Mosul ha raccontato di avere visto Jadaoun prendere parte ad almeno un’esecuzione in piazza. Tre persone fatte mettere in ginocchio, dietro di loro tre uomini con le pistole in mano, un colpo alla nuca ciascuno e c’era anche il belga a volto scoperto, “non dimenticherò mai le urla esaltate di quelli che sparavano”, ha raccontato l’iracheno a un giornalista belga. Del resto nel marzo 2016 Jadaoun aveva preso già parte a un video a volto scoperto – anche in quello esortava a compiere attentati – e su Facebook giravano altre immagini di lui molto chiare, per colpa della solita vanità da foreign fighter: foto ricordo con fucili, foto ricordo con compagni di guerra, dito indice alzato verso il cielo. Lo Stato islamico è sempre cautissimo con le immagini, tende a proteggere molto i leader e le figure importanti – niente foto e niente video non autorizzati – e quindi c’è da chiedersi perché lasciava che i volontari europei continuassero a scattarsi ritratti. Forse faceva parte della campagna di propaganda, forse perché i capi godevano nel vedere i volontari arrivati dall’Europa così entusiasti e così ingenui.

Ogni foto è un capo d’accusa, ogni video è una prova a tuo carico. Che prova più grande ci può essere del fatto che sei riuscito a comprare l’anima di un uomo che si scatta foto da solo? Nel settembre 2016 il Foglio aveva identificato Jadaoun come membro di una rete che tentava di organizzare all’estero attentati come Parigi 2015 e Bruxelles 2016 e aveva pubblicato un suo video privato girato a Mosul. Una fonte dice al Foglio che nello Stato islamico c’era qualche dubbio su di Jadaoun. Una volta il combattente belga aveva ricevuto via Telegram una foto molto delicata, che non poteva circolare, ma aveva fatto uno scatto dello schermo del telefonino. Telegram però ha un’impo - stazione di sicurezza che ti avverte se qualcuno scatta l’istantanea di un messaggio che hai inviato, e quindi il mittente aveva cominciato a sospettare. In generale era considerato uno che si vantava troppo, quindi un po’ diverso dal profilo di taciturno, discreto e letale organizzatore di stragi di civili in Europa capace di stare in stand by per anni che serve allo Stato islamico. Il fatto che sia finito davanti alla telecamera negli ultimi giorni di Mosul in qualche modo è una conferma: se uno non è ancora bruciato o se è prezioso non finisce così esposto. La storia di come Jadaoun si è arruolato nello Stato islamico è così lineare che suona come un esempio da manuale. Preso per rapine, finisce in cella a Liegi con un predicatore tunisino che lo convince che la conquista di Gerusalemme è possibile e che la fine del mondo è vicina, quando dopo un anno esce – nel 2014 – parte con altri tre amici, vola in Romania per non destare sospetti e da lì raggiunge la Turchia. Un passeur dello Stato islamico li prende tutti e quattro e li porta a piedi in Siria. Due settimane di addestramento religioso, due di addestramento militare a Raqqa.

A gennaio 2015 il suo nome salta fuori dopo l’attacco delle forze speciali della polizia belga contro una casa a Verviers per fermare una cellula dello Stato islamico che vuole assaltare un commissariato, prendere in ostaggio poliziotti, decapitarli e mettere il video su Internet. Due nomi, si dice che uno sia lui ma è una notizia sbagliata. E’ la prima volta che si comincia a parlare di una rete del gruppo terrorista in Europa, ma la notizia passa un po’ in sordina perché a Parigi c’è stata la strage di Charlie Hebdo. Secondo una fonte del Foglio in Siria, Jadoun incontra di persona Abaaoud, lo stragista di Parigi, anche se ora durante gli interrogatori nega. Poi si sposta a Mosul, fa la vita dei foreign fighter, pagati di più e trattati meglio degli altri dai capi dello Stato islamico ma anche visti con sospetto e tenuti un po’ a distanza. A luglio circola la notizia della morte di Jadaoun, ma è una bufala per ingannare i servizi segreti che lo cercano.

A settembre arriva la notizia della sua cattura. Ha tentato di fuggire assieme con un altro quando il fuoco d’artiglieria è diventato troppo intenso, un predicatore dello Stato islamico li ha fermati, voleva che facessero un’azione suicida, loro sono fuggiti. Adesso il belga è a Baghdad, si dice nella prigione di un’unità speciale dell’intelligence irachena che si chiama Falcon. Dice che ha informazioni che potrebbero essere importanti per salvare vite in Europa, vuole parlare con i servizi d’intelligence del Belgio. In realtà ci ha già parlato, due giorni, ma dice che sono stati troppo pochi, ci vorrebbero due settimane. Gli agenti dell’intelligence americana distaccati a Baghdad lo stanno interrogando da quattro mesi, ma Jadaoun vuole evitare la forca, fare leva sulla possibilità di informazioni utili a evitare attentati in Europa è di sicuro la strada migliore. Jadaoun dice anche che era costretto a dire quelle cose, temeva per la sua vita. Sostiene di non essere coinvolto in nessun modo negli attentati in Europa e di non avere preso parte all’organizzazione di attacchi. Anzi, dice che vuole chiedere pubblicamente scusa alle famiglie delle vittime in Francia e in Belgio, “anche se io non c’entro”. Tra l’Iraq e il Belgio non c’è un trattato di estradizione però. Maggio, quando in mezzo al fumo della battaglia e in mimetica chiamava al massacro in Europa, sembra così lontano. Domenica a Baghdad c’è stata un’altra scena di pentimento davanti alle telecamere. La sedicenne tedesca Linda Wenzel, scappata da casa vicino Dresda nel luglio 2016 per raggiungere lo Stato islamico e sposare un combattente ceceno, ha incontrato la madre e la sorella e ha detto: “Con l’Iraq ho chiuso”.

Sostiene di essersi fatta convincere dai video di propaganda del gruppo terrorista in cui tutto sembrava perfetto, “la gente passeggia nei parchi e cuoce il pane assieme” – qui viene davvero da perdere il filo, perché la maggioranza assoluta dei video dello Stato islamico riguarda combattimenti, esecuzioni e attentati. Inoltre Wenzel è partita nel 2016, quando ormai la tenuta del Califfato vacillava fortissimo, i baghdadisti perdevano una città dopo l’altra, una campagna di bombardamenti massiccia colpiva ovunque, non poteva davvero sembrare un’idea brillante. La situazione era così difficile che per arrivare a Mosul – nel nord ovest dell’Iraq – la sedicenne tedesca entrò in Siria da un valico lontano seicento chilometri e fuori dal controllo dei terroristi, e appena dentro sposò il suo ceceno via telefono. Una rete d’appoggio dello Stato islamico s’è presa cura di lei durante tutto il viaggio. Nelle rade comunicazioni con la madre esaltava Anis Amri, il tunisino stragista del mercatino di Berlino nel dicembre 2016 e chiamava “cani” gli agenti dell’intelligence tedesca che tentavano di rintracciarla. Quando i soldati iracheni l’hanno scoperta a Mosul credevano che fosse una prigioniera yazida, perché parlava poco l’arabo, poi hanno cambiato versione: Linda è stata addestrata come cecchino, dove è stata recuperata c’erano altre donne e armi. Dire adesso “Con l’Iraq ho chiuso” potrebbe non essere sufficiente come strategia di difesa. Viene in mente un ammonimento che lo Stato islamico lanciava ai suoi nemici, ai poliziotti, ai soldati: ravvedetevi e vi accoglieremo tra di noi, fate tawba, atto di pentimento e sottomissione, però fatelo prima che vi prendiamo (perché altrimenti vi uccideremo, era il finale sottinteso). Pentitevi prima che vi prendiamo. L’idea, ad ascoltare le interviste come quelle di Jadaoun e Wenzel, è che se il Califfato fosse ancora in piedi parlerebbero in modo diverso. Fanno atto di pentimento a mezzo stampa, ma forse è soltanto perché sono stati presi.

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