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Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli A destra: violenze di arabi palestinesi Cari amici, la storia forse non è magistra vitae, ma dalla cronaca sì, si possono e si devono trarre lezioni, perché se non si guarda ai fatti è difficile capire dove andare e cosa fare. Guardiamo dunque alla recente non-intifada. Tanto per incominciare è la terza non-intifada consecutiva, dopo quella “dei coltelli” di tre anni fa e quella “di Al Aqsa” dei mesi scorsi, quando terroristi palestinesi spararono sulla spianata del Tempio e uccisero due poliziotti di guardia; il governo israeliano adottò delle misure fra cui l’istallazione di metal detector all’ingresso dell’area e poi passò a misure di sorveglianza antiarmi più indirette e sofisticate dopo che i metal detector erano stati trasformati in pretesto per proteste. Non-intifada vuol dire tentativo fallito di innescare una rivolta di massa con episodi di violenza organizzati. Le due volte che vi citavo questo aspetto era abbastanza chiaro, ma ora è esplicito e dichiarato. E però la rivolta non c’è stata, nonostante incitamenti e provocazioni. A Gaza, che è uno spazio governato col terrore, vi è stato nei giorni scorsi un grande corteo, ma poi a scontrarsi con la polizia di confine sono stati i soliti miliziani del terrore, poche centinaia, come sono stati pochi quelli che hanno inscenato manifestazioni e blocchi in Giudea e Samaria, per lo più dentro le città governate dall’Autorità Palestinese. Tre non-intifade a fila nel giro di un paio d’anni sono una lezione molto chiara, che incominciano a capire anche coloro che hanno cercato di promuoverla, cioè politici e “rivoluzionari di professione” di parte palestinista e politici e giornalisti europei, quelli che hanno profetizzato il disastro, la guerra , la catastrofe dopo che Trump si era limitato a constatare una cosa di naturale buon senso: che ogni stato è libero di scegliere la sua capitale e che Israele ormai quasi settant’anni fa ha scelto Gerusalemme, scelta cui sul piano pratico tutti si sono adeguati. Anche i palestinisti più estremi, negli intervalli in cui trovavano conveniente simulare una trattativa con lo stato di Israele, venivano a fare le riunioni a Gerusalemme, non a Haifa o Tel Aviv. La lezione è questa: gli arabi che vivono da quelle parti sono stanchi di guerra. Non credono più di poter sterminare tutti gli ebrei o ricacciarli in mare, nonostante l’ininterrotta propaganda omicida dei palestinisti. Vedono benissimo che razzi e coltelli, tunnel d’attacco e rapimenti, bombe e investimenti automobilistici non sono in grado di terrorizzare gli ebrei. Forse qualcuno di loro, più intelligente e informato, si è anche stufato di quel fascismo d’accatto che i gruppi terroristi continuamente esibiscono, quelle adunate oceaniche, quelle tute mimetiche, quei passamontagna, quei bambini costretti a recitare da bande armate all’asilo, quella violenza diffusa, quel razzismo, quella esaltazione della morte. Forse vogliono vivere la loro vita, fare il loro lavoro, godersi i normali piaceri dell’esistenza, evitare il contagio della violenza che regna sovrana tutto intorno a loro. Forse si sono resi conto che normalizzare le relazioni con Israele, o almeno tornare alle relazioni normali che c’erano prima della disgraziata scelta di Peres e Rabin di importar loro in casa i terroristi dalla Tunisia con gli accordi di Oslo, sarebbe il modo più facile di migliorare la vita. Forse qualcuno si rende conto che se cessassero gli attentati, le “giornate della rabbia”, le tentate intifade, il loro livello di vita potrebbe molto migliorare e l’autonomia di cui già godono potrebbe svilupparsi molto. Ecco, forse il mio è un eccesso di ottimismo, ma credo che le paci si costruiscono sempre prendendo atto della realtà. Sono nato a Trieste quando era una città circondata da una barriera di separazione con filo spinato, mine, guarnigioni militari, posti di blocco. Oggi tutto questo non c’è più, dove c’era un confine sorvegliatissimo si va tranquillamente a passeggiare in su e in giù: tutto questo è accaduto quando l’Italia ha preso atto che l’Istria, a torto o a ragione era diventata territorio iugoslavo (oggi sloveno o croato) e ha smesso di rivendicarlo, di meditare rivincite e guerre patriottiche. Lo stesso è accaduto dappertutto in Europa e potrebbe accadere anche fra il Giordano e il Mediterraneo se gli arabi locali smettessero di seguire coloro che cercano di usarli per i loro interessi, si tratti dell’Autorità Palestinese, di Fatah o di Hamas, di Hezbollah o di Iran e di recente anche della Turchia di Erdogan. Ci vorrebbe un cambiamento di rotta anche dell’Unione Europea, che cercasse la pace davvero e non la guerra a Israele, e bisognerebbe inoltre che le organizzazioni che vivono sul conflitto, tante Ong che hanno la pace nel nome ma perseguono l’odio antisemita (anche quando sono composte da ebrei) si dedicassero a scopi più nobili o almeno meno masochisti. E’ un’utopia? Una speranza? Chissà. Israele è quel paese in cui se non credi ai miracoli non sei realista, come disse Ben Gurion. Basta sapere però che c’è una premessa all’utopia. La pace verrà quando i palestinisti non solo saranno sconfitti (lo sono già stati), ma lo saranno così chiaramente da non poter evitare di riconoscere la loro sconfitta e l’errore di aver intrapreso una battaglia sbagliata e impossibile.
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