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La Repubblica Rassegna Stampa
16.12.2017 Salviamo Djalali, l'Iran sta per impiccarlo. Tace l'università piemontese dove ha lavorato
Cronaca di Antonello Guerrera

Testata: La Repubblica
Data: 16 dicembre 2017
Pagina: 14
Autore: Antonello Guerrera
Titolo: «L'Europa non abbandonerà Djalaili al boia. Vogliamo salvarlo»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 16/12/2017, a pag.14, con il titolo "L'Europa non abbandonerà Djalaili al boia. Vogliamo salvarlo " la cronaca di Antonello Guerrera.

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Si rimane stupiti che l'Università del Piemonte Orientale a Novara non abbia finora fatto sentire la propria voce, eppure Djalali è stato per tre anni ricercatore in quella università. Non sarà per via dell'accusa lanciatagli contro da Teheran di essere "una spia di Israele" ad aver motivato l'abbandono del loro ex collega? Piemonte Orientale è noto per mobilitarsi spesso contro "l'entità sionista".

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Antonello Guerrera

«L'Unione europea segue con attenzione il caso di Ahmadreza Djalali. Lo abbiamo sempre portato all'attenzione delle autorità iraniane, anche nell'ultimo incontro di alto livello che si è tenuto qualche settimana fa. L'Ue si oppone con fermezza e decisione alla pena di morte in ogni circostanza. I diritti umani rimangono al centro delle nostre relazioni con l'Iran e continueremo ad affrontare le autorità di Teheran sul tema, anche per quanto riguarda i casi individuali». Un portavoce dell'Alto rappresentate europeo agli Affari Esteri, Federica Mogherini, risponde così all'appello lanciato ieri su Repubblica dalla senatrice Elena Cattaneo e da Vida Mehrannia, la moglie del medico e ricercatore Ahmadreza Djalali condannato a morte in Iran per «spionaggio a favore di Israele» e «complicità nell'uccisione di quattro scienziati nucleari iraniani». Anche il Ministero degli Esteri italiano sta seguendo con attenzione la vicenda: «È stata sollevata più volte», dicono fonti della Farnesina, «anche in occasione della recente visita del ministro degli Esteri di Teheran, Zarif». Per lo studioso iraniano, che ha lavorato per anni anche all'Università del Piemonte orientale a Novara, il tempo stringe: questa settimana la Corte Suprema di Teheran ha confermato la sua condanna a morte, dopo l'arresto nel 2016 in Iran e quello che molti familiari e attivisti hanno definito un «processo farsa». Durante il «sommario, segreto e precipitoso» procedimento giudiziario, infatti, Djalali è stato privato di molti diritti. Come spiega l'ong Amnesty, innanzitutto i legali del ricercatore non sono riusciti a presentare la propria documentazione di difesa e le arringhe in sede di appello presso la Corte Suprema: «Dall'inizio di novembre, gli avvocati di Djalali hanno più volte contattato la Corte Suprema per capire a quale sezione fosse stata assegnata la richiesta di appello», scrive Amnesty. Per settimane gli è stato detto che il caso non era ancora stato assegnato per l'esame e che avrebbero dovuto aspettare». E invece, pochi giorni fa, l'improvvisa sentenza, a loro insaputa. Anche il verdetto della pena capitale contro Djalali pare lunare: in Iran non si applica per spionaggio, ma solo quando l'accusa è «diffusione della corruzione sulla Terra» (è l'articolo 286 del codice penale islamico), ossia quando l'imputato è considerato una serissima minaccia alla sicurezza nazionale. Che non pare proprio essere il caso di Djalali. Ma ci sono altri aspetti inquietanti. Dopo l'arresto nel 2016 e il trasferimento nella famigerata prigione di Evin (braccio 209, quello gestito dal Ministero dell'Intelligence), per sette mesi a Djalali è stato negato un avvocato dal procuratore Abolgasem Salavati (uno dei più severi in Iran), diversi legali scelti dall'imputato sono stati respinti dalla Corte e quello presente in aula durante il primo processo ha potuto parlare solo per pochi minuti. Inoltre, il ricercatore è stato spesso bendato e in isolamento in condizioni disumane. Non solo: a oggi, non è disponibile alcun documento scritto del processo, e nemmeno della sentenza. E quelle poche "prove" dello «spionaggio per conto di Israele» sarebbero, secondo una lettera che Djalali ha fatto filtrare di recente dal carcere, confessioni estorte dopo torture fisiche e psicologiche e ripetute minacce di morte verso la sua famiglia. Djalali ha sempre detto che l'ingiusto processo contro di lui ha un solo motivo: si sarebbe rifiutato di fare la spia al soldo di Teheran. E quindi la condanna a morte sarebbe una vendetta. «Questo processo si è svolto come si svolgono in tutti i Paesi autoritari», spiega al telefono il senatore del Pd Luigi Manconi, che segue il caso di Djalali da molto tempo, «e lo dimostrano diversi elementi, come l'accusa alla base del processo. A Djalali sono stati negati i diritti umani fondamentali e non ci sono prove contro di lui, siamo totalmente nell'ipotetico». Ora, nel torbido percorso giudiziario della sua incredibile vicenda, a Djalali rimarrebbero due strade per evitare il boia: chiedere al Ministero della Giustizia iraniano un riesame del caso. Oppure, ammettere le proprie colpe e invocare la grazia. Ma Djalali lo ripete da anni ormai: «Sono innocente».

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