Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 15/12/2017, a pag.4, con il titolo "Gerusalemme e noi", la lettera di Emanuele Calò.
Eshkol Nevo
Al direttore - Il presidente Usa, Donald Trump, riconosce Gerusalemme come capitale dello stato d’Israele e decide di trasferirvi l’ambasciata. Non sembrerebbe, tuttavia, né che abbia creato Israele né che siffatto riconoscimento renda la capitale d’Israele più capitale di prima. Qualcuno pensa che sarebbe bello che uno stato palestinese insediasse la propria capitale in Gerusalemme est e che nel pomeriggio il presidente d’Israele andasse a mangiare la pita col falafel col presidente palestinese, senza guardie del corpo e che, se D-o vuole, litigassero per il calcio, anche in modo feroce, com’è giusto che sia. In quel mondo ideale, si proseguirebbe coi palestinesi il rapporto che si ha con gli arabi israeliani, al quale rapporto, alla luce delle catastrofi finora vissute, sarebbe da assegnare il massimo dei voti, con lode annessa. Il suddetto riconoscimento, secondo un’opinione quasi unanime, ostacolerebbe il processo di pace che, come ciascuno sa, era ai dettagli finali, mancando soltanto la definizione di quando e come spararsi.
Gerusalemme
Per fortuna è intervenuto nel frattempo Eshkol Nevo, il quale scrive sul Corriere della Sera dell’11 dicembre che “Gerusalemme può rappresentare l’inizio della risoluzione del conflitto, se ricorderemo che non è solo nostra”. Sennonché, quando avremo preso coscienza che non è solo nostra, non sarà cambiato nulla. Una simile coscienza animava i promotori del processo di Oslo, che è finito malissimo. Scorrendo le opinioni di Nevo, trovo tanto in comune con talune anime belle della Diaspora, anch’esse persuase della necessità di diventare più buone come chiave per migliorare il mondo e addivenire alla pace. Un pensiero così alla Rudyard Kipling da sembrare obsoleto, perché se è certamente possibile essere persuasi che sia sufficiente diventare migliori per cambiare il mondo, per converso, non è bastevole essere buoni per farsi amare, perché in quelle impegnative vicende tocca essere in due. Beninteso, Nevo potrà pur amarsi da solo ma, per farsi amare, dovrebbe quanto meno compulsare l’altrui parere. Alcuni scrittori israeliani si presentano al mondo, e ai loro potenziali lettori, quali anime candide, rischiando che qualche anima meno candida anziché prendere loro per pacifisti di sinistra, possa scambiarli per autoreferenziali privi della consapevolezza che non esistono soltanto loro, ma che esistono anche gli altri, col rispettivo corredo di diritti e di doveri, fra i quali ultimi vi è pure la responsabilità di cui ciascun essere umano è investito per le proprie azioni e decisioni. Non basta, quindi, che Nevo e tanti altri ricordino che Gerusalemme non è soltanto loro, perché non si è soli e abbandonati al mondo, ma esistono anche gli arabi palestinesi, senza i quali nessun progetto di condivisione potrà vedere la luce. Non escludo che molti lettori di Eshkol Nevo apprezzino la generosità e la modestia delle sue parole, senza notare che non si dovrebbe scrivere che “non c’è futuro senza compromessi e senza vedere l’altro” se non si dichiara al contempo che il compromesso è tale perché coinvolge le due parti e che lui, come israeliano, dovrebbe chiedere alla controparte se accetta il compromesso. Scrivendo come scrive, nella migliore delle ipotesi, Nevo illude sé stesso e i suoi lettori; nella peggiore delle ipotesi, sembrerebbe che non consideri che il prossimo abbia sì dei diritti – ci mancherebbe – ma anche delle responsabilità. L’irrilevanza di certa sinistra non sarebbe un bene se non insistesse, sempre e ovunque, a ritenersi depositaria della volontà generale nel più vieto stile di JeanJacques Rousseau. Ora, mentre nell’ambito interno questo atteggiamento può dispiacere, quando lo si trasferisce in medio oriente, il pensiero corre subito all’anzidetta anima di Rudyard Kipling, facendo pensare che essere democratici di sinistra diventi talvolta, se non un ossimoro, quanto meno un’utopia.
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