Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 14/12/2017, a pag.I, con il titolo "La prossima guerra siriana" l'analisi di Daniele Raineri.
Daniele Raineri
Martedì l’ex segretario americano alla Difesa Robert Gates – che ha servito sia sotto il presidente Bush sia sotto Obama – ha parlato al forum annuale Arab Strategy a Dubai e ha detto che nel 2018 ci potrebbe essere una guerra tra Israele e il gruppo libanese Hezbollah (il Partito di Dio) sponsorizzato dall’Iran. Gates si unisce così a un coro di altri esperti che parla della possibilità molto concreta che stia per scoppiare il secondo round del conflitto combattuto nel 2006. All’origine di questo nuovo, possibile disastro in medio oriente c’è che Israele confina a nord con la Siria e che quel paese è assai diverso rispetto a undici anni fa. Nel frattempo il governo del presidente Bashar el Assad è riuscito a prevalere in una guerra civile molto brutale che ha fatto circa mezzo milione di morti in sei anni, ma per riuscirci ha accettato che la Siria diventasse una colonia militare dell’Iran e di Hezbollah. Prima della guerra Damasco aveva un rapporto di alleanza con quei due, ora ha un rapporto di sudditanza dovuto al fatto molto semplice che senza l’Iran e Hezbollah le forze di Assad sarebbero state travolte dai gruppi armati (non scrivo “travolte dallo Stato islamico” perché lo Stato islamico non era che una soltanto delle forze in campo, anche se negli ultimi tre anni ci siamo occupati soprattutto di lui).
Terroristi al soldo dell'Iran in Siria
La settimana scorsa l’Amministrazione Trump ha detto che circa l’ottanta per cento dei combattenti governativi che di recente hanno ripreso l’area di Deir Ezzor in nome di Assad era straniero, quindi non inquadrato nell’esercito siriano ma appartenente alle milizie libanesi, irachene, afghane (e altro) dirette dall’Iran. Se a questo si aggiunge il ruolo molto importante degli aerei da guerra della Russia nella guerra civile, si vede che Assad ha salvato il suo posto, ma al prezzo di contrarre grandi debiti con creditori esterni che ora non vedono motivi per lasciare la Siria. Due di questi, Iran e Hezbollah, sono i nemici più aggressivi di Israele e il governo israeliano ha già detto che non tollera questa situazione di minaccia esistenziale permanente: il nemico installato nel paese accanto.
Terroristi di Hezbollah
In questi giorni si parla molto di Gerusalemme ovest, appena confermata dall’Amministrazione Trump come capitale di Israele, perché c’è la convinzione che sia il punto di crisi che potrebbe scatenare la prossima guerra, ma è una convinzione errata. Oggi sono le alture del Golan che separano Israele e Siria l’area di crisi più pericolosa e la guerra di cui parla l’ex capo del Pentagono Gates è già cominciata in forma di raid aerei. La settimana scorsa l’aviazione israeliana ha bombardato tre, forse quattro, obiettivi in territorio assadista. Uno era il campo di Ein Kiswah, 13 chilometri a sud della capitale Damasco e a quaranta chilometri dalla frontiera israeliana del Golan, dove secondo fonti israeliane citate dall’analista Yossi Melman c’era una base costruita per ospitare cinquemila soldati iraniani o uomini delle milizie sciite. E’ un ritmo molto accelerato per un’aviazione che, secondo i calcoli del Foglio, a partire da gennaio 2013 ha bombardato in Siria ogni 18 giorni circa, per un totale che supera le centoventi missioni. Questo secondo round della guerra tra Israele e Hezbollah di cui parlano gli esperti sarebbe differente dal primo per molte ragioni. Prima di tutto, adesso molto più che in passato sarebbe una guerra diretta di Israele con l’Iran, perché Teheran è molto più coinvolta che negli anni passati, tutti i paraventi intermedi stanno cadendo, è pure questo un caso – come si dice – di disintermediazione. In secondo luogo, il teatro di guerra non sarebbe più soltanto il sud del Libano come nel 2006 ma includerebbe tutto il Libano e tutta la Siria. Terzo punto importante: il primo round scoppiò a sorpresa per colpa di un’escalation fortuita dopo un blitz di Hezbollah al confine per sequestrare soldati israeliani, nel 2018 invece ci saranno stati dodici anni per prepararsi. I generali israeliani dicono che il secondo round non finirebbe come il primo, quindi con una sospensione delle ostilità dopo 34 giorni e un negoziato delle Nazioni Unite, questa volta puntano all’annientamento della minaccia una volta per tutte – il che vuol dire che guardano a una guerra molto brutale e a tempo indeterminato. Dietro al primo conflitto non c’era ancora un pensiero strategico definitivo da entrambe le parti, questa volta c’è.
Ci sono altri fattori che aiutano a inquadrare meglio questa guerra prossima ventura, vediamoli assieme. Questa volta non c’è soltanto Hezbollah, c’è tutto un assortimento di milizie filoiraniane. Sabato 9 dicembre su internet è arrivato il video di un comandante di un gruppo iracheno mentre visita il sud del Libano a ridosso del confine con Israele. Dire “un comandante di un gruppo iracheno” in effetti è un understatement, perché si trattava di Qais al Khazali, capo della Lega dei giusti – in arabo A’saib al Haq – la fazione più letale degli sciiti durante la guerra americana in Iraq, dieci anni fa. I generali del Pentagono all’epoca dicevano che quel gruppo sciita iracheno era più pericoloso dello Stato islamico e anche loro – gli sciiti – si vantavano di avere ucciso più soldati americani dei terroristi sunniti. In quegli anni erano citati nei rapporti scritti dai militari americani con un nome diverso da quello arabo: erano i “Gruppi speciali” ed erano considerati come una diretta emanazione delle Guardie della rivoluzione iraniane: selezionati, addestrati, armati e diretti dall’Iran per creare problemi alle unità americane. Come molte altre cose, sono spariti dal radar dei grandi media, ma erano conosciuti per due specialità. Una erano le operazioni di guerra molto più sofisticate del solito: per esempio a Karbala arrivarono in una base dentro la città, travestiti da soldati americani, con divise, mezzi e armi di ordinanza, passarono il cancello, entrarono dentro, rapirono cinque americani e scapparono via – durante la fuga uccisero i prigionieri per liberarsi degli inseguitori. L’altra erano gli EFP, che è la sigla di un tipo micidiale di bombe costruite apposta per distruggere i mezzi corazzati degli americani. In breve, funzionano così: l’esplosione liquefa nel giro di millesimi di secondo un cono di rame che si trasforma in un getto di metallo fuso capace di forare la blindatura dei mezzi e uccidere gli occupanti. Non erano i soliti congegni da terroristi fai da te dello Stato islamico, ma roba molto più sofisticata.
A ottobre un soldato americano in Iraq è stato ucciso da un EFP in un’area controllata dalle milizie, molti considerano la faccenda come un avvertimento: la tregua funzionale alla campagna contro lo Stato islamico è scaduta, possiamo tornare a uccidervi come durante la guerra. Tra questi gruppi, il più importante era il “Khazali Group”, chiamato così dal nome di Khazali. Durante la campagna per liberare la città di Mosul dallo Stato islamico, questo inviato del Foglio ha visto gli uomini del Khazali Group ai posti di blocco attorno alla base americana di Qayyara, a sud della città, che è una tattica usata spesso dai gruppi speciali: circondare le basi americane con posti di blocco, per fare sentire il pressing. Ora il capo della Lega dei giusti appare sul confine tra Libano e Israele – “la Palestina occupata” dice lui nel video – e promette un’alleanza militare con il gruppo Hezbollah e con i palestinesi. Si tratta di uno scenario molto temuto dagli israeliani, è la saldatura operativa tra i gruppi combattenti iracheni, libanesi e palestinesi coltivati per anni dall’Iran. Non è un caso che arrivi adesso, mentre la guerra civile in Siria è ormai sotto il controllo dell’asse Russia – Iran – governo di Bashar el Assad. Rappresenta il “dopo”, l’idea che la Siria esce dalla fallita rivoluzione trasformata in una piattaforma militare a disposizione dell’Iran per le sue politiche espansionistiche. Il video è anche una risposta beffarda ai sauditi, che accusano il Libano di lasciare piena libertà alle milizie filoiraniane, e potrebbe essere tradotto in questo modo: “E’ pro - prio così e non potete farci nulla, tutta la sceneggiata fatta con il primo ministro libanese Saad Hariri, costretto alle dimissioni a Riad e poi tornato primo ministro a Beirut come se nulla fosse successo, non sono servite a niente”.
Israele ha adattato la sua linea politicomilitare a quello che succedeva in Siria grazie a una serie progressiva di linee rosse. “Linea rossa” in effetti è una parola un po’ ironica da usare in questo contesto, perché la linea rossa più celebre in Siria è quella fissata e poi ignorata dal presidente americano Obama nell’estate 2012, quando disse che l’uso di armi chimiche era “la linea rossa che se attraversata avrebbe fatto scattare la reazione militare dell’America”. Non fu così e l’esercito siriano massacrò impunemente millequattrocento civili un anno dopo con l’agente nervino a est della capitale Damasco. Le linee rosse di Israele in Siria, tuttavia, sono fissate per essere rispettate. L’analista Yossi Melman ha da poco scritto un pezzo interessante su queste impostazioni di default, che in origine erano una soltanto: non intervenire in alcun modo, tenersi fuori da quello che succede nel paese confinante. Ma questo approccio ha cominciato presto a essere troppo debole. Nel 2014 gli israeliani sono stati costretti a reagire a un’iniziativa del generale iraniano Qassem Suleimani e di Hezbollah, che avevano messo in piedi un piano per creare lungo tutto il confine cellule dormienti, formate anche da palestinesi appartenenti ai resti del Fronte popolare per la liberazione della Palestina.
Le cellule avevano il compito di attivarsi in caso di guerra nel vicino Libano e sparare razzi contro Israele anche dal confine siriano, ampliando di molto il lavoro degli aerei israeliani che danno la caccia ai gruppi di fuoco. Furono spazzate via con una campagna di operazioni segrete e di bombardamenti con i droni. Un’altra linea rossa israeliana riguarda la comunità di drusi siriani che vive appena al di là del confine e che è legata per molte affinità anche familiari con la comunità dei drusi israeliani. Israele ha stabilito che dev’essere protetta dalla fazioni islamiste che scorrazzano nell’area anche con un intervento militare se necessario e finora le cose sono andate bene – la cosa colpisce molto se si considera che quei drusi siriani sono allineati con Assad, quindi in teoria sono schierati con il regime che favorisce le azioni degli iraniani. Ma così funziona il medio oriente, per frammentazioni e piccoli accordi locali. A partire da gennaio 2013, Israele ha anche presidiato un’altra linea rossa: il trasferimento di armi sofisticate – per esempio missili cruise – oppure di armi di distruzione di massa (leggi: armi chimiche) al gruppo libanese Hezbollah, che è il motivo della maggior parte dei raid aerei. Melman individua un’altra linea rossa: evitare a tutti i costi un confronto militare con la Russia in Siria e per questo “il primo ministro israeliano Benjamin Netanyhau ha investito molto tempo e molte energie per migliorare le relazioni con Vladimir Putin. E’ volato a Mosca sei volte per incontrare Putin, più di qualsiasi altro leader del mondo in un periodo di tempo così breve”. Mosca e Gerusalemme hanno stabilito una linea di comunicazione speciale per evitare di pestarsi i piedi a vicenda durante le operazioni in Siria e prima o poi i russi dovranno spiegare quest’ambiguità ai loro alleati iraniani. Per esempio, uno dei bombardamenti israeliani più recenti ha devastato un centro di ricerca militare che è a pochi minuti di volo da Hmeimim, la gigantesca base aerea che è il centro di tutte le operazioni russe in Siria. I russi proteggono quel sito con il meglio della tecnologia avionica e bellica a loro disposizione, possibile che non abbiano visto nulla?
Infine, adesso che la guerra civile è ormai sotto controllo da parte del governo di Damasco, gli israeliani hanno fissato una nuova linea rossa: nessuna presenza iraniana, o di loro accoliti, in Siria in una fascia territoriale profonda 40 chilometri a partire dal confine con Israele, e anche nessuna base militare permanente degli iraniani – incluse eventuali basi navali, aeroporti militari, basi dell’intelligence. Se questa richiesta non sarà rispettata, allora come avvertiva l’ex segretario alla Difesa americana Gates i 2018 potrebbe essere l’anno della ripresa della guerra. Se così fosse, le conseguenze non sono prevedibili. L’incognita della guerra missilistica Tutti questi raid aerei israeliani per bloccare il trasferimento di missili verso la Siria e verso il Libano avvengono nel mezzo di una rivoluzione tecnologica che sta sconvolgendo il medio oriente. Come si sa, l’accordo sul nucleare iraniano del luglio 2015 oltre a sospendere il programma di ricerca atomica per dieci anni blocca anche le sperimentazioni con i missili balistici, ma dice nulla a proposito dei missili cruise. Che differenza c’è tra le due armi? I missili balistici sono quelli che prima sono lanciati verso lo spazio e che poi scendono giù dagli strati alti dell’atmosfera verso i loro bersagli con una traiettoria più o meno curva. Sono gli stessi che la Corea del nord sta testando sul mar del Giappone ogni pochi mesi – per ora finiscono sempre in acqua – e che provocano sobbalzi nella diplomazia internazionale. I missili cruise sono quelli che non hanno una traiettoria prestabilita e che sono guidati in volo, capaci di volare a quota molto bassa – per esempio a cento metri dal suolo – per evitare di essere intercettati e sono capaci di percorrere così lunghe distanze.
Ora, la notizia è che il 3 dicembre scorso in Yemen gli Houthi hanno sparato un missile cruise di tipo Soumar verso una centrale atomica negli Emirati arabi uniti, a millecento chilometri di distanza. Il lancio è fallito, il missile è caduto dopo poco, ma gli specialisti sono entrati in agitazione. Il Soumar è un missile di fabbricazione iraniana, prende il nome di un villaggio interamente gasato da Saddam Hussein durante la guerra Iran-Iraq durante gli anni Ottanta, la produzione è cominciata nella primavera del 2015 e prende come modello da copiare un missile sovietico, il Kh 55. L’Iran ne aveva acquistato di contrabbando una quindicina di esemplari trafugati dall’Ucraina all’inizio degli anni Duemila. Il missile sparato dai filoiraniani era davvero un Soumar? E se è davvero così, come è arrivato in quelle mani? Si trattava di un test (fallito)? Se gli iraniani sono riusciti a portarlo in Yemen, ne hanno anche trasferiti alcuni in Siria? Questo è lo scenario discusso. Ma questa campagna di raid aerei israeliani e questi scenari missilistici sono quasi assenti dalla discussione corrente, che invece è molto concentrata sul balletto diplomatico che riguarda la – per ora – inesistente ambasciata americana a Gerusalemme.
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