Alan Dershowitz: 'Ecco quello che penso di Donald Trump'
Analisi di Antonio Donno
Alan Dershowitz
“I terroristi non devono esercitare alcun veto sulla politica americana”. Con queste parole di pietra – apparse il 7 scorso su “The Hill”, giornale on-line pubblicato da Capitol Hill Publishing, D.C. – Alan M. Dershowitz ha commentato il discorso di Donald Trump, che ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele, impegnandosi a trasferire l’Ambasciata americana da Tel-Aviv alla stessa Gerusalemme. Si è trattato di una svolta rivoluzionaria nella politica americana verso la questione di Gerusalemme, una questione rimasta bloccata fin dal 1967. Il problema era rimasto all’ordine del giorno subito dopo la fine della guerra dei sei giorni, quando gli israeliani avevano riunito la città sotto la propria esclusiva amministrazione. Le contestazioni avevano occupato un arco di tempo lunghissimo, senza mai giungere a una definizione precisa. Viceversa, negli anni tra il 1948 e il 1967, quando quei luoghi erano occupati dalla Giordania, in conseguenza della prima guerra arabo-israeliana, le Nazioni Unite si guardarono bene dal condannare quell’occupazione. La doppiezza della politica onusiana sulla questione di Gerusalemme costituisce un test-case dell’atteggiamento negativo che la cosiddetta comunità internazionale ha avuto nei confronti di Israele, con particolare riguardo al problema di Gerusalemme. Purtroppo, anche gli Stati Uniti, su tale punto, hanno avuto, nel corso dei decenni, un comportamento profondamente ambiguo e sostanzialmente dilatorio.
La copertina del recente libro di Alan Dershowitz
Per questo motivo, Dershowitz così conclude il suo articolo: “Lodiamo il Presidente Trump per aver fatto la cosa giusta, rifiutandosi di ripetere quella cosa ingiusta che il Presidente Obama aveva fatto alla fine della sua presidenza”. Ma che cosa aveva fatto Obama, per giustificare le lodi rivolte da Dershowitz a Trump? Obama aveva chiuso la decennale querelle non a favore di Israele, ma a favore dei nemici di Israele, facendo sì che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvasse una risoluzione che definiva i Luoghi Sacri del Giudaismo presenti in Gerusalemme territori “occupati” e perciò “una flagrante violazione della legge internazionale”; in questo modo, Obama – scrive Dershowitz – modificò radicalmente “lo status quo e rese più difficile la pace, fornendo ai palestinesi un enorme vantaggio nei futuri negoziati e disincentivandoli dallo stipulare un compromesso di pace”. La giusta affermazione di Dershowitz implica, però, una domanda cruciale? La pace implica un negoziato: ma quale negoziato si sta svolgendo attualmente? La realtà è che la pessima azione di Obama consente ai palestinesi di non dare avvio ad alcun negoziato, approfittando anche della vasta azione di delegittimazione di Israele messa in campo dai leader palestinesi in tutte le istituzioni internazionali. Ecco perché il riconoscimento di Trump è veramente un sasso nello stagno, che pone brutalmente la cosiddetta comunità internazionale di fronte a un problema per troppo tempo eluso. L’Onu ha condannato il gesto di Trump, ma il suo atto ha un valore pari a zero. Il fatto è che la più grande potenza internazionale ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele. Nessuno può ignorarlo. I mesi futuri ci diranno che Trump ha fatto la cosa giusta. Opportunamente Dershowitz afferma che “il Presidente Trump merita un elogio per aver riequilibrato le posizioni negoziali tra Israele e i palestinesi”, posizioni che dopo il 1967, e soprattutto con l’atto di Obama, avevano fornito ai nemici di Israele un assurdo vantaggio negoziale, nonostante le vittorie di Israele. Un fatto unico nella storia delle relazioni internazionali.
Si può dire, quindi, afferma Dershowitz, che i Luoghi Sacri del Giudaismo in Gerusalemme durante l’occupazione giordana, durante la quale furono distrutti molti di quei luoghi, furono judenrein e, dopo il 1967, Washington “assunse la posizione ufficiale per la quale non riconosceva le legittime richieste di Israele di una Gerusalemme ebraica”. In conseguenza di tutto ciò, si ritenne che la situazione di Gerusalemme sarebbe rimasta aperta per il negoziato finale, ma la storia ci ha insegnato che questo stato di sospensione non faceva altro che rafforzare le posizioni dei nemici di Israele, ammesso che essi volessero iniziare un processo negoziale. L’atto di Obama ha offerto un punto di forza straordinario ai palestinesi. Occorre aggiungere qualche considerazione sulla posizione degli Stati Uniti in tutti gli anni che hanno preceduto il riconoscimento di Trump. Johnson era contrario a che Israele aprisse le ostilità nei confronti degli arabi, perché pensava che gli arabi dovessero assumersi la responsabilità di iniziare una nuova guerra contro Israele. Ma Israele non poteva aspettare. Dopo la schiacciante vittoria israeliana, Johnson si accodò subito al trionfo di Gerusalemme, perché questo gli dava una grande vantaggio su Mosca, ma lasciò insoluta la questione della città, in quanto riteneva che un appoggio a Israele su questo delicato problema avrebbe riaperto un contenzioso in cui i sovietici e gli stessi arabi avrebbero potuto rialzare la testa. I successivi presidenti americani lasciarono insoluta la questione, per ragioni diverse. Nixon fornì un aiuto decisivo in armamenti nella fase più difficile per Israele durante la guerra del 1973, cosicché l’esito finale positivo per lo Stato ebraico fu un grande sollievo che accantonò la questione di Gerusalemme.
Con Carter, la pace tra Israele ed Egitto rappresentò, nonostante tutto, un cruciale passo in avanti nei rapporti tra Israele e il paese più importante del mondo arabo e, di conseguenza, tirare in ballo il problema di Gerusalemme avrebbe potuto far saltare l’intero accordo. Reagan assicurò a Israele un sostegno continuo e senza ambiguità. Scrisse nelle sue memorie: “Io ho creduto in molte cose nella mia vita, ma nulla è stato più forte della mia convinzione che gli Stati Uniti dovessero assicurare la sopravvivenza di Israele”. Ma, anche con Reagan, la questione di Gerusalemme restò fuori dall’agenda americana, sempre per non dare a un’Unione Sovietica in crisi di prestigio internazionale ai tempi di Gorbacev, l’opportunità di avere qualche chance di rimonta; oppure, più probabilmente, perché la crisi sovietica consentiva a Washington di avere un controllo così solido sul Medio Oriente che la questione di Gerusalemme scivolò in secondo piano, anche con il benestare di Israele che in quel momento godeva di una tale self-confidence da non voler rischiare nulla sul problema della città. Alla svolta del secolo, la prima guerra del Golfo con George H.W. Bush e la seconda con George W. Bush dettero alla situazione mediorientale una scossa molto pericolosa, che vide un impegno massiccio militare da parte degli Stati Uniti per fronteggiare l’Iraq di Saddam Hussein, che aveva invaso il Kuwait, e poi l’intervento americano per abbattere il regime del dittatore iracheno. In ambedue i casi la crisi generale dell’area impegnò così severamente gli Stati Uniti che la questione di Gerusalemme sembrò un problema di secondaria importanza.
Ma, oltre a tutto ciò, la ragione del disimpegno americano nei confronti del problema della città era soprattutto Arafat. Così ha scritto George W. Bush nelle sue memorie: “Nella primavera del 2002, ero giunto alla conclusione che la pace non sarebbe stata possibile con Arafat al potere”. Toccare la questione di Gerusalemme avrebbe scatenato una terribile ondata di terrorismo. Fra i due Bush si inserisce l’attività di Clinton che tentò vanamente di convincere Arafat ad accettare le proposte di Barak: il fallimento portò con sé anche l’impossibilità di affrontare la questione di Gerusalemme. Occorre, però, alla fine di questa carrellata, sottolineare la mancanza di volontà – per motivi diversi ma confluenti nello stesso atteggiamento – di tutti i presidenti americani post-1967 a risolvere il problema della città nei termini che soltanto Trump ha saputo affrontare in modo unilaterale, cioè dal punto di vista di una responsabilità esclusiva di una potenza che ribadisce la propria centralità nel sistema politico internazionale. Tornando all’articolo di Dershowitz, egli giudica l’atto di Trump la rottura decisiva di un immobilismo che aveva avvantaggiato la posizione palestinese. Con la decisione di Obama, che aveva concluso tutto un lungo periodo di immobilismo sulla questione con un atto di estrema gravità, Dershowitz si chiede: “Se questo è lo status quo, quali incentivi hanno i palestinesi per entrare in una fase negoziale?”. E se da parte americana si è accettato che la situazione di Gerusalemme fosse discussa nei negoziati finali, risulta consequenziale “il ragionamento in base al quale gli Stati Uniti hanno rifiutato di riconoscere qualsiasi parte di Gerusalemme, inclusa Gerusalemme Ovest, come parte di Israele”. Ora tutto ciò è finito. Il processo di pace, se nascerà, dovrà partire da questo dato di fatto ineludibile; e “nessuna decisione americana dovrà essere influenzata dalla minaccia della violenza”.
Antonio Donno
Già Prof.Ordinario di Storia dell'America
Università del Salento,Lecce.
Storia delle Relazioni Internazionali,Università
Luiss,Roma.
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