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Il Giornale-Il Foglio Rassegna Stampa
09.12.2017 Gerusalemme capitale e rivolte: tre articoli per capire
Gian Micalessin, Micol Flammini, Redazione del Foglio

Testata:Il Giornale-Il Foglio
Autore: Gian Micalessin-Redazionale-Micol Flammini
Titolo: «C'è l'Iran, il 'solito nemico' dietro alla rivolta palestinese-Scontri a Gaza dopo,la svolta diTrump. Aviazione contro i razzi-Israele parimonio»

Riprendiamo oggi,09/12/2017, tre servizi  idispensabili per capire che cosa sta avvenendo in Medio Oriente e in Italia, sulla cosidetta 'rivolta palestinese' a seguito della dichiarazione di Trump. Dal GIORNALE a pag.12, dal FOGLIO entrambi a pag.1

Il Giornale-Gian Micalessin: " C'è l'Iran, il 'solito nemico' dietro alla rivolta palestinese"

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Gian Micalessin

La chiamano ancora «intifada», ma tra gli scontri di ieri a Gaza, suggellati dal sangue dei militanti di Hamas, e la rivolta scoppiata esattamente trent'anni fa quando, sempre a Gaza, un blindato israeliano investi e uccise tre lavoratori palestinesi, c'è di mezzo un mondo. Trent'anni fa quel mondo si fermava ai confini della Striscia. Oggi arriva a Teheran. Allora era una rivolta. Oggi è la propaggine di una guerra oscura e silenziosa. La guerra tra Israele e il suo nemico esistenziale. La guerra tra lo Stato Ebraico e l'ultima potenza musulmana in grado di minacciarne la sopravvivenza. Certo non è iniziata ieri. E ad innescarla non è stato certo Donald Trump. Si è combattuta nel 2006 al confine con il Libano. E continua in Siria dove, un giorno sì e uno no, l'aviazione israeliana colpisce i pasdaran iraniani e i loro alleati di Hezbollah sempre più vicini a trasformare le alture del Golan nel nuovo fronte del conflitto. Da ieri però quella guerra è ancora più vicina ad Israele. Ancora più pressante. Da ieri le sue prime linee corrono tra il valico di Erez e il confine egiziano, si dipanano tra le recinzioni, le casematte e l'esile terra di nessuno che separa la Striscia dai territori israeliani. Al di là di quelle difese non ci sono più solo bambini palestinesi e secchielli pieni di sassi. Di là, dietro ai kalashnikov dei militanti di Hamas, dietro ai missili Qassam pronti a colpire Israele c'è anche, e soprattutto, il nemico iraniano. E lì da dieci anni, ma nel 2011 - allo scoppio della guerra in Siria - il suo ruolo sembrava esaurito. Nato da una costola della Fratellanza Musulmana, Hamas ha dovuto «obtorto collo» schierarsi con i fratelli sunniti, combattere Bashar Assad, fronteggiare quella potenza sciita diventata, dopo il 2007, il suo armiere e il suo finanziatore. Non è durata a lungo. La guerra l'hanno vinta Bashar e gli iraniani. E ora Hamas è di nuovo ai loro ordini. A rilanciare la vecchia alleanza ci pensa Izz ad-Din al-Qassam, l'ala militare dell'organizzazione. Mohammed Deif, il suo capo indiscusso, il55enne martire vivente sopravvissuto per tre volte alle bombe israeliane non ha mai rinunciato al patto di fedeltà con Teheran. Ma quel troncone umano senza più gambe, privo di un occhio e costretto a vivere sottoterra per sfuggire al nemico non pub da solo garantire l'asse con Teheran. A dargli manforte c'è dal febbraio di quest'anno Yaha Sinwar. Famoso per esser stato uno dei fondatori delle Brigate Al Qassam e per la condanna all'ergastolo dopo il rapimento e l'uccisione nel 1988 di due soldati israeliani Sinwar è stato rilasciato nel 2011 in cambio della liberazione di Gilad Shalit, il militare di Tsahal rapito nel 2006 da Hamas. Nominato capo di Hamas a Gaza nel febbraio di quest'anno ha contribuito a rinsaldare i legami con Teheran. E a dargli una mano c'è Ismail Haniyeh, un altro irriducibile nato e cresciuto nella Striscia nominato - lo scorso maggio - capo politico del movimento. Ma alla ricucitura dei rapporti con Teheran lavora anche Saleh al Arouri, l'ex capo di Hamas in Cisgiordania accusato di aver ordinato nel 2014 il rapimento e l'uccisione di tre ragazzini israeliani. Dal Libano e dal Qatar - dove vive alla macchia da sei anni - Al Arouri fa la spola con Teheran e tiene i contatti con Sinwar impegnato da mesi a rilanciare l'attività militare e a promettere la distruzione di Israele. Il riconoscimento di Gerusalemme capitale pronunciato da Donald Trump non è stato altro, insomma, che il pretesto per passare dalla parola ai fatti. E offrire a Teheran un nuovo avamposto alle porte d'Israele

Il Foglio- Redazionale: "Scontri a Gaza dopo,la svolta diTrump. Aviazione contro i razzi"

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 Milano. Le manifestazioni, il dissenso, la protesta attesi dopo l'annuncio dell'Amministrazione Trump di spostare l'ambasciata americana a Gerusalemme, riconoscendo ufficialmente la città contesa come capitale d'Israele, sono arrivati. Nel secondo giorno della "rabbia palestinese", migliaia di persone sono scese in strada a Gerusalemme est dopo la preghiera islamica del venerdì alla moschea di al Aqsa, in Cisgiordania - nelle città di Ramallah, Betlemme, Hebron e altrove-, e a Gaza. lungo la barriera che separa Israele dalla Striscia controllata da llamas. Un manifestante è stato ucciso dal fuoco dell'esercito israeliano proprio a Gaza, a Khan Younis, nel sud della Striscia, mentre sono oltre duecento i feriti negli scontri tra soldati e forze dell'ordine israeliane e manifestanti palestinesi. Le proteste sulla controversa mossa del presidente americano Donald Trump hanno attraversato il mondo arabo, da Tunisi all'Iraq, passando per lo Yemen in guerra, e quello musulmano, con cortei fino in Indonesia e Malaysia. Domani al Cairo si riunirà d'emergenza la Lega araba, e la settimana prossima il presidente russo Vladimir Putin incontrerà sulla questione il turco RecepTayyip Erdoan, che riunirà anche i leader dei paesi islamici a Istanbul. Il coordinatore delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, Nikolay Mladenov, ha detto al Consiglio di Sicurezza che esiste il "rischio" di un aumento delle violenze. L'establishment militare israeliano dal giorno dell'annuncio di Trump rafforza l'apparato di sicurezza: non sono stati richiamati come nei momenti di massima emergenza i riservisti, ma interi battaglioni sono stati inviati nei Territori palestinesi, lungo il confine con Gaza, assieme a unità di intelligence, mentre decine di agenti di polizia sono stati dispiegati nelle principali città del paese. "Il sangue che sicuramente sarà versato - scriveva tre giorni fa il quotidiano liberal israeliano Haaretz - non sarà sulle mani di Trump ma su quelle di Netanyahu". La decisione presa dagli Stati Uniti fa temere una nuova stagione di violenze nella regione e mette il primo ministro Benjamin Netanyahu nella difficile situazione di dover gestire un possibile rafforzarsi dell'instabilità. A livello pubblico, le reazioni dei membri del governo israeliano in seguito all'annuncio americano non sono state particolarmente rumorose. Il premier avrebbe istruito i propri ministri a non parlare della questione del trasferimento dell'ambasciata americana proprio in anticipazione delle violenze, per evitare che le istituzioni israeliane potessero essere accusate di aver in qualche modo fomentato un clima di instabilità: la decisione, ricordano gli analisti, non è infatti attribuibile a Netanyahu, ma al presidente Trump. Sebbene in una posizione difficile davanti alle crescenti tensioni, il premier è politicamente rafforzato dall'annuncio degli Stati Uniti. Come ricorda Tal Schneider, corrispondente diplomatico del quotidiano finanziario israeliano Globes, la dichiarazione di Trump ha cambiato l'argomento della discussione pubblica in Israele, nelle ultime settimane incentrata sulle inchieste sulla presunta corruzione di Netanyahu. Inoltre, la nuova direzione presa dagli Stati Uniti "enfatizza le eccellenti relazioni, le connessioni personali, la comunicazione che il premier ha sempre detto di avere con Trump, e che gli altri leader politici israeliani non hanno". La giornalista, che da molto tempo segue la politica interna, dice di non ricordare di aver assistito negli ultimi anni a un periodo di tale consenso nazionale. La dichiarazione dell'Amministrazione americana ha infiammato la regione e diviso la comunità internazionale, ma in Israele è stata salutata da tutti i partiti come un passo epocale, e accolta con entusiasmo dai principali rivali di Netanyahu, il laburista Avi Gabbay e il centrista Yair Lapid.

Il Foglio-Micol Flammini:" Israele parimonio"

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Micol Flammini                    Ruben Della Rocca

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 Roma. "E' ora di dichiarare Israele patrimonio dell'umanità". E' la proposta di Claudio Cerasa sul Foglio di ieri, contro il tentativo sistematico di cancellare Israele e la sua storia, "per difendere il popolo ebraico dalla nuova intifada culturale". La decisione di Trump di spostare l'ambasciata americana a Gerusalemme ha fornito nuovo materiale ai tanti che non vedono negli attacchi contro Israele la matrice di un'ideologia violenta e distruttiva, e per questo è il momento di reagire. E' necessario portare avanti una nuova battaglia di civiltà - in cui l'Europa dovrebbe essere in prima linea - lanciando la candidatura di Israele come patrimonio dell'umanità. "Non posso che condividere l'iniziativa", commenta Ruben Della Rocca, vicepresidente della Comunità ebraica di Roma, contattato dal Foglio, "ma rispondo anche con una provocazione: Israele è già patrimonio dell'umanità per tutti coloro che hanno l'onestà di riconoscerla come faro di democrazia". "I paesi europei dovrebbero gettare il cuore oltre l'ostacolo", dice Della Rocca, "e assumersi la responsabilità di non lasciare spazio agli equivoci, fare dichiarazioni chiare e riconoscere a Israele i propri meriti, la sua civiltà e la storia". Per Della Rocca, il silenzio dell'Europa rischia di essere inteso come un tacito sostegno al progetto dei pa
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