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Il Foglio Rassegna Stampa
08.12.2017 Gerusalemme capitale: Stato ebraico patrimonio dell'umanità
Editoriale di Claudio Cerasa, l'ironia di Andrea Marcenaro, analisi di Francesco Maselli

Testata: Il Foglio
Data: 08 dicembre 2017
Pagina: 1
Autore: Claudio Cerasa - Andrea Marcenaro - Francesco Maselli
Titolo: «E’ ora di Israele patrimonio dell’umanità - Andrea's Version - Intifada e illusioni»

Riprendiamo dal FOGLIO del 08/12/2017, a pag.1, con il titolo "E’ ora di Israele patrimonio dell’umanità", l'analisi del direttore  Claudio Cerasa; "Andrea's Version", di Andrea Marcenaro; a pag. I, le analisi "Intifada e illusioni", "Macron l’ambiguo" di Francesco Maselli.

Ecco gli articoli:

Claudio Cerasa: "E’ ora di Israele patrimonio dell’umanità"

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Claudio Cerasa

Bisognerebbe reagire con forza contro tutti gli stupidotti che nelle ultime ore hanno creduto alla tesi pigra e superficiale in base alla quale si considera possibile che le intifade contro il popolo ebraico possano nascere sulla scia di una reazione e non di una semplice azione contro Israele. Naturalmente, la scelta di Donald Trump di spostare l’amba - sciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme è stata una scelta dirompente, oltre che importante, che avrà degli effetti sugli equilibri geopolitici del medio oriente ma è una scelta che non può in nessun modo essere descritta come se fosse il vero motore delle azioni che verranno portate avanti contro Israele. Ieri il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha invitato i palestinesi e i nemici del popolo ebraico a organizzare, contro Israele, “un’intifada popolare globale” (gli scontri sono cominciati già ieri pomeriggio) ma dietro alla volontà di mobilitare tutta l’internazionale antisemita e antisionista del medio oriente c’è un tema che va ben al di là del riconoscimento da parte degli Stati Uniti di Gerusalemme come capitale d’Israele ed è un tema che ancora oggi in molti tendono a non voler mettere a fuoco: il sogno di cancellare Israele dalle mappe geografiche, la volontà di considerare gli ebrei degli infedeli da eliminare come suggeriscono alcuni passi del Corano, il desiderio di non riconoscere le radici giudaiche dei luoghi santi di Gerusalemme. L’intifada palestinese, il terrorismo islamista e la shoah culturale non nascono da una forma di reazione a un’azione di Israele (o dei suoi alleati) ma nascono dallo stesso odio ideologico, culturale e religioso che permette a Hezbollah di sognare la distruzione dello stato ebraico, che permette all’Isis di sognare la decapitazione di ogni ebreo, che costringe ogni giorno Israele a difendere i suoi confini dagli attacchi terroristici e che ha portato nel 1947 i palestinesi a non riconoscere lo stato ebraico. L’odio contro Israele non nasce dunque da una reazione a un’azione ma nasce da un’azione che prende corpo all’interno di un’ideologia distruttiva. E per questo in un momento in cui i nemici del popolo ebraico utilizzeranno la mossa di Trump per provare nuovamente a incendiare Israele sarebbe importante che gli amici di Israele, soprattutto in Europa, trovassero qualcosa di più intelligente da fare e da dire rispetto alla semplice scomunica della Gerusalemme capitale. Un’Europa che sceglie di rompere con i paesi arabi riconoscendo come gli Stati Uniti la legittimità di Gerusalemme a essere capitale di Israele non è pensabile prima di tutto per ragioni di carattere diplomatico perché quando ci sono due mondi che non dialogano (Palestina e Israele, Iran e Israele) avere qualcuno che dialoga con entrambi è pur sempre importante a meno di non voler regalare alla Russia anche il compito di mediare tra Israele e i suoi avversari. Se però l’Europa e i suoi paesi guida, tra cui ovviamente l’Italia, volessero trovare una formula efficace per mettere a nudo quali sono i paesi che davvero stanno dalla parte di Israele e quali invece no avrebbero una carta semplice da utilizzare: dichiarare Israele patrimonio dell’umanità. Quali sono i criteri con cui l’Unesco accetta di inserire una candidatura all’interno del patrimonio mondiale? Eccoli: “Presentare un eccezionale valore universale e soddisfare almeno uno dei dieci criteri di selezione illustrati nelle Linee Guida per l’applicazione della Convenzione del patrimonio mondiale”. E quali sono i punti delle Linee Guida che potrebbero essere citati per trasformare Israele in patrimonio dell’Umanità? Almeno tre: “Oc - corre mostrare un importante interscambio di valori umani, in un lungo arco temporale o all’interno di un’area culturale del mondo, sugli sviluppi nell’architettura, nella tecnologia, nelle arti monumentali, nella pianificazione urbana e nel disegno del paesaggio”. “Occorre essere testimonianza unica o eccezionale di una tradizione culturale o di una civiltà vivente o scomparsa”. “Occorre costituire un esempio straordinario di una tipologia edilizia, di un insieme architettonico o tecnologico, o di un paesaggio, che illustri uno o più importanti fasi nella storia umana”. Il numero uno dell’Unesco, oggi, si chiama Audrey Azoulay. Azoulay è un’ex ministro della Cultura francese, è stata voluta da Macron alla guida dell’Organiz - zazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura e tra i suoi compiti prioritari dovrebbe avere anche quello di dimostrare che l’Unesco non ha più intenzione di essere sottomessa all’islamicamente corretto, visti i tentativi recenti (perfettamente riusciti) di cancellare a colpi di mozioni la storia millenaria della Gerusalemme ebraica, negando per esempio ogni rapporto fra l’ebraismo e il Monte del Tempio e il Muro del Pianto. Sarebbe bello che su questo tema Emmanuel Macron, colui che oggi rappresenta meglio degli altri il sogno europeista ma che purtroppo negli ultimi giorni è stato uno dei più duri contro la scelta di Trump di portare l’ambasciata americana a Gerusalemme, si spendesse per organizzare una grande campagna di sostegno alla candidatura di Israele come patrimonio dell’umanità. Tutto questo probabilmente non accadrà e allora non resta che sperare che sia l’Italia a trasformare questa proposta in una battaglia di civiltà. L’occasione per far propria questa piccola campagna (contattato dal Foglio, l’ambasciatore israeliano in Italia, Ofer Sachs, dice con un sorriso di “essere d’accordo con l’idea del Foglio di lanciare la candidatura di Israele come patrimonio dell’Umanità”) potrebbe essere più vicina di quello che si pensi. Il prossimo 13 dicembre, a Ferrara, il presidente della Repubblica, grande amico di Israele, inaugurerà il Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah e magari in quell’occasione Sergio Mattarella potrà riflettere su un tema che ci sembra importante: è possibile, signor presidente, che l’Unesco, come ha comunicato due giorni fa, riconosca come patrimonio dell’umanità la pizza napoletana e non Israele? Nel nostro piccolo, noi ci contiamo. Grazie.

Andrea Marcenaro: "Andrea's Version"

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Andrea Marcenaro

Casino in medio oriente, ieri. Altro, probabilmente, ce ne sarà domani. Chissà dopodomani poi si spera di no. Pensandoci meglio, poteva venir bene lo status quo raccomandato subito da Papa Ciccio. Con i libri di scuola in Cisgiordania e Gaza, dove Israele non compare sulle cartine geografiche. Con gli attentatori proclamati martiri, anche meglio se sono femmine, più vitalizio relativo ai parenti. I bambini di Betlemme ai quali, nelle feste comandate, viene regalato un coltello. Odio a chilometro zero. Ebrei da cancellare. Quegli altri che non ne vogliono sapere. Tre morti con un camion di qua. La reazione di là. Qualche missile da Gaza. Un paio di bombardamenti per autodifesa. Dieci morti di qua. Quindici di là. Altri trenta da questa parte, solo che il benedetto tir travolga come deve. Qualcuno di più con le bombe dai droni, che intelligenti sì, ma la precisione l’è quel che l’è. Un campo di bare con la stella di Davide. Un altro campo di bare con la mezzaluna. E a quel punto ci siamo. Un pizzico di fantasia, giusto quel cicinìn che serve per immaginarsi i campi uno sopra l’altro, poi basta lo status quo che l’obiettivo è raggiunto: due popoli, due strati.

"Intifada e illusioni"

Milano. Israele ha rafforzato la sicurezza in tutto il paese e ha inviato nuovi battaglioni e unità dell’intelligence militare a Gerusalemme, nei Territori palestinesi della Cisgiordania e lungo la barriera con la Striscia di Gaza. Nel venerdì della rabbia, dopo la preghiera islamica di oggi, si prevede che centinaia di palestinesi scendano nelle strade. Il timore è che le violenze possano essere più estese e fatali di quelle di ieri. A Ramallah, Nablus, Jenin, Hebron e in molte altre cittadine della Cisgiordania come a Gerusalemme est ci sono stati infatti scontri tra manifestanti palestinesi e forze dell’ordine ed esercito israeliani, con decine di feriti. Una folla ha invece lanciato pietre contro i soldati israeliani attraverso la barriera tra Gaza e Israele, dove le sirene hanno suonato dopo mesi di silenzio a causa del lancio di due razzi dalla Striscia. In Cisgiordania, le autorità avevano indetto ieri uno sciopero delle scuole e delle attività pubbliche e chiamato la popolazione palestinese a manifestare contro la decisione del presidente Donald Trump, annunciata martedì e confermata mercoledì, di trasferire l’ambasciata americana a Gerusalemme, riconoscendo la città contesa come capitale di Israele. Da Gaza, il leader degli islamisti di Hamas, Ismail Haniyeh, ha chiesto ieri una nuova “intifada”: “Vogliamo una rivolta continua per fare in modo che Trump e l’occupazione rimpiangano la decisione”, ha detto. L’ondata di violenza degli anni Duemila innescata da Hamas contro Israele ha portato a sanguinosi attentati, a scontri e all’uccisione di centinaia di civili. Da qui ieri la mobilitazione nelle cittadine israeliane di decine di agenti di polizia, mentre il capo di stato maggiore Gadi Eizenkot ha visitato gli alti gradi dell’esercito. Dal vicino Libano, anche le milizie sciite di Hezbollah, che nel 2006 hanno combattuto una guerra di 34 giorni contro Israele, hanno fatto sapere che, dopo le parole di Trump su Gerusalemme, l’unico modo per “reinstaurare i diritti” sarebbe quello della resistenza armata. E’ in quest’atmosfera di minacce, con una strada palestinese in crescente tensione e lo spettro di nuove violenze, che i leader di tutto il mondo hanno dato per morto, a causa delle dichiarazioni di Trump, il processo di pace. Il processo di pace, dice però al Foglio Anshel Pfeffer, esperto di sicurezza del quotidiano liberal israeliano Haaretz, non esiste da anni. E il suo giornale lo ha ricordato ieri così: “Trump non ha ucciso il processo di pace, lo ha soltanto dichiarato morto”. E’ necessario avere le prove dell’esi - stenza di un processo di pace prima di pronunciarlo morto, ci dice Shlomo Brom, che come direttore della divisione di pianificazione strategica dell’eser - cito israeliano ha partecipato negli anni Novanta ai negoziati di pace con palestinesi, giordani e siriani. “Non c’è però un processo di pace tra israeliani e palestinesi dai tempi del primo ministro Ehud Olmert. Anche se l’ex presidente americano Barack Obama ci ha provato, non ci sono colloqui diretti da allora”, e stiamo parlando di un mandato che si è concluso nel 2009. L’andamento del processo di pace, inoltre, storicamente non è legato all’innescarsi di nuove violenze, ricorda sempre Brom, facendo l’esempio di come il Trattato di pace con l’Egitto nel 1979 sia arrivato dopo una guerra. Nessuna volontà di negoziare Il dibattito sul processo di pace è assente da così tanto tempo nell’opinione pubblica israeliana che sia nelle elezioni del 2015 sia in quelle del 2013 non era priorità di nessun partito, neppure dei laburisti. La sinistra da movimento che ha storicamente incentrato le sue campagne sulla risoluzione del conflitto con i palestinesi è passata a occuparsi principalmente di ineguaglianze economiche. Gli israeliani hanno votato infatti orientati soprattutto da problemi sociali. Certo, nei sondaggi la maggior parte dei cittadini risponde d’essere favorevole alla soluzione a due stati. In pochi, e lo dicono ancora una volta i sondaggi, credono però che si tratti di una condizione realizzabile. “Le due parti non hanno la volontà di negoziare – dice Brom –, e se Trump e il genero Jared Kushner avevano intenzione di riattivare il processo di pace si sono sparati nei piedi: non puoi mediare se hai preso una delle due parti”. Per Eli Lake, osservatore della politica estera americana ed editorialista di Bloomberg, la mossa di Trump è significativa e al contrario potrebbe rimettere in piedi un processo agonizzante: “So - spendere la neutralità americana sulla questione di Gerusalemme indebolisce l’illusione che i leader palestinesi continuano a fornire alla propria popolazione: quella di una Gerusalemme indivisa e palestinese”, dice al Foglio. Questo potrebbe portare la leadership verso il negoziato, in un momento in cui, come ricordava due giorni fa il New York Times, la questione palestinese è stata ormai rimpiazzata da altre priorità nel resto del mondo arabo, e la solidarietà mostrata dai leader regionali in queste ore potrebbe rimanere confinata al regno delle parole.

Francesco Maselli: "Macron l’ambiguo"

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Francesco Maselli

Roma. Emmanuel Macron “disapprova” la decisione di Donald Trump. Ieri il presidente francese, in visita in Qatar, è tornato ancora una volta sul trasferimento dell’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme: “E’ una decisione unilaterale, come ho già detto non la condivido e anzi la disapprovo perché contraddice il diritto internazionale e le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite”. La Francia, in questo momento lo stato europeo più impegnato nelle questioni internazionali, soprattutto in medio oriente, non sosterrà dunque la volontà americana di imprimere un cambio di passo al conflitto israelo-palestinese e ribadirà la posizione contraria durante il Consiglio di sicurezza straordinario convocato per domani al Palazzo di vetro. I francesi sono da sempre a favore della soluzione dei due popoli, due stati con una capitale unitaria, l’atteggiamento fermo dunque non sorprende. Anzi, dà modo al presidente di mettere in pratica il suo personale modo di agire, riassunto sui giornali con la formula “enmêmetempisme”, in riferimento all’intercalare “en même temps”, allo stesso tempo, utilizzato in maniera ossessiva in quasi tutti i discorsi pubblici. La Francia sta giocando una partita molto ambigua in medio oriente, muovendosi abilmente tra il blocco sunnita e quello sciita, e proponendosi come potenza stabilizzatrice della regione. Così, se il ministro degli Esteri, Jean Yves Le Drian, parla spesso di Arabia saudita come di un “alleato” e dell’Iran sì come parte dell’ac - cordo sul nucleare ma come stato troppo aggressivo, e di certo non alleato, en même temps l’Eliseo tiene a specificare che “La Francia non sceglie un campo contro un altro”. Il presidente si vuole mediatore, in grado di dialogare con tutti gli attori senza pregiudizi: difficile però che questo atteggiamento possa essere replicato all’infini - to su Gerusalemme. Si levano voci che chiedono alla Francia solidarietà esplicita nei confronti di Israele, per quanto tempo Macron potrà ignorarle? In questo contesto la visita in Qatar non è casuale. Il piccolo emirato è, da sei mesi, al centro di un blocco commerciale da parte di Arabia Saudita, Bahrain, Emirati arabi ed Egitto, che hanno rotto unilateralmente le relazioni diplomatiche con Doha, accusata di sostenere gruppi terroristici e soprattutto di essersi molto, troppo avvicinata a Teheran. Anche Macron non era stato tenero durante la campagna elettorale, accusando Doha di partecipare al finanziamento del terrorismo. I giornalisti Christian Chesnot e Georges Malbrunot raccontano, nel loro ultimo libro, Nos très chers émirs, che l’emiro Tamim Ben Hamad al Thani ha dovuto attendere una settimana intera prima di poter parlare al telefono con il neoeletto presidente. Il Macron presidente è stato più diplomatico del Macron candidato: ha affermato di “non accusare nessuno”, ha ribadito che la Francia non prende posizioni nello scontro tra i paesi del golfo e ha invitato Al Thani al prossimo vertice antiterrorismo che dovrebbe tenersi a Parigi a gennaio. L’apertura al Qatar fa dunque parte anche della volontà di dialogo con Teheran. Il viaggio a sorpresa del presidente francese a Riad per cercare di risolvere la questione di Saad Hariri, il premier libanese che il 4 novembre si era temporaneamente dimesso dalla sua carica dall’Ara - bia Saudita, dov’era praticamente prigioniero, non è piaciuto agli iraniani. Farsi vedere in buoni rapporti con l’emiro qatariota, che per l’occasione ha anche annunciato di aver iscritto i suoi figli in una scuola francese, riequilibra le relazioni. Se la Francia continua a sostenere l’accor - do sul nucleare iraniano, ha espresso più volte preoccupazione per l’aumento dell’influenza di Teheran nella regione e condannato il suo programma missilistico convenzionale. I rapporti tra i due paesi stanno attraversando una fase abbastanza tesa; esiste un diffuso sentimento anti iraniano nella diplomazia francese che negli ultimi tempi sta guadagnando influenza, e il viaggio di Jean Yves Le Drian nel paese, previsto inizialmente prima della fine dell’anno per preparare la visita ufficiale di Emmanuel Macron, che andrà a Teheran, pare, nel 2018, non ha ancora una data. La visita di Macron in Qatar non seguiva però soltanto interessi diplomatici. I francesi coltivano una proficua relazione di affari con il piccolo emirato, da molto tempo cliente privilegiato dei grandi gruppi parigini. Nella giornata di ieri i due stati hanno firmato contratti per più di 11 miliardi di euro. In ambito civile, un’impresa costituita dalla Sncf (ferrovie dello stato francesi) della Ratp (il consorzio di trasporti parigino) e dalla qatariota Hamad group, si è aggiudicata la gestione della futura metro di Doha e della rete tranviaria di Lusai, che dovrebbero iniziare a operare nel 2020. Un affare da 3 miliardi di euro per vent’anni strappato, specifica il Monde, ai tedeschi dell’Arriva, alla MTR di Hong Kong, ai britannici di Serco, ai giapponesi JR-West/Mitsubishi e ai concorrenti francesi di Transdev. In ambito militare i qatarioti hanno esercitato l’opzione conclusa nel 2015 per dodici caccia Rafale (costo 1,1 miliardi di euro), hanno firmato un’opzione per altri 36 caccia, e una lettera di intenzione per l’acquisto di 490 blindati per la fanteria (Vbci) del gruppo Nexter. 

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