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La Repubblica Rassegna Stampa
07.12.2017 Gerusalemme Capitale: sulla Repubblica servizi unilaterali
I commenti faziosi di Federico Rampini, Wlodek Goldkorn, Francesca Caferri

Testata: La Repubblica
Data: 07 dicembre 2017
Pagina: 12
Autore: Federico Rampini - Francesca Caferri - Wlodek Goldkorn
Titolo: «Trump: Gerusalemme capitale. Un debito pagato alla destra - Tra i palestinesi: 'Pronti a difendere casa nostra' - Impossibile unirla o dividerla il destino della città-mondo»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 07/12/2017, a pag. 12-15, con i titoli "Trump: Gerusalemme capitale. Un debito pagato alla destra", "Tra i palestinesi: 'Pronti a difendere casa nostra' ", "Impossibile unirla o dividerla il destino della città-mondo"  i commenti di Federico Rampini, Francesca Caferri, Wlodek Goldkorn.

Anche la Repubblica, come il Corriere della Sera, pubblica servizi unilateralmente contro le dichiarazioni di Donald Trump su Gerusalemme.

Secondo Federico Rampini Trump ha "pagato un debito alla destra" e rischierebbe di innescare una serie di violenze. Il terrorismo arabo palestinese, in realtà, esiste da un secolo e non ha mai avuto bisogno di pretesti per scatenarsi.

Francesca Caferri intervista alcuni arabi palestinesi di Gerusalemme: niente di male, se facesse lo stesso anche con israeliani che vivono nella capitale, ma per questi ultimi non c'è spazio, a meno che non siano ostili al governo, per quelli le pagine sono sempre a disposizione.

Wlodek Goldkorn, infine, si dilunga sul valore universale di Gerusalemme, "città simbolo per le tre religioni monoteiste". In questo modo, perde di vista quello che Gerusalemme è oggi: la capitale di uno Stato fiorente e democratico come Israele. W. conivide la definizione di "Gerusalemme celeste", che piace molto negli ambienti cattolici che non vorrebbero israeliana quella terrena.

Ecco gli articoli:


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Donald Trump con Benjamin Netanyahu

Federico Rampini: "Trump: Gerusalemme capitale. Un debito pagato alla destra"

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Federico Rampini

«Ho deciso, è ora di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come la capitale d’Israele». Donald Trump pronuncia la dichiarazione storica che chiude con 70 anni di tradizione diplomatica americana, crea uno strappo con il mondo arabo e larga parte della comunità internazionale. Lo fa rivendicando di essere «uno che mantiene le promesse». Perché «il Congresso ha votato nel 1995 perché questo avvenisse, altri presidenti lo hanno promesso e poi non lo hanno fatto». Ironizza sull’ipocrisia dei suoi predecessori che «regolarmente visitavano Gerusalemme e lì incontravano i capi dei governi d’Israele» fingendo d’ignorare il ruolo di quella città. Lui non sa che farsene di quelle doppiezze, riconosce «quello che è già evidente », perché Israele «ha il diritto di scegliersi la sua capitale come ogni Stato sovrano». L’anti-politico Trump è su un terreno familiare quando dileggia il conformismo dell’establishment diplomatico: «Non possiamo risolvere i problemi continuando a replicare le strategie fallimentari del passato». È questo il filo rosso che unisce le sue svolte in politica estera: non rinfacciatemi gli strappi rispetto ai miei predecessori, guardate ai loro insuccessi, la vecchia politica estera non ha dato frutti. Nella stessa occasione Trump firma l’atto che avvia il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv. Su questo fronte cede qualcosa alle formidabili pressioni che nelle ultime ore sono state esercitate un po’ da tutto il mondo: dai suoi alleati arabi (sauditi, giordani, egiziani), dagli europei, dal Vaticano. Il trasferimento non è immediato come Trump aveva pensato, immaginando di cambiare targa al consolato Usa di Gerusalemme. Invece opta per i tempi lunghi con l’acquisto di un terreno ad hoc, la ricerca di «architetti e ingegneri» che costruiranno la nuova sede, un sotterfugio per dilazionare quello che i palestinesi considerano uno schiaffo gravissimo. Una parte del discorso di Trump è rivolto alle sue constituency, disseminato di riferimenti biblici, di elogi alla democrazia israeliana.

Nella parte finale cerca di rassicurare il mondo arabo, assicura ai palestinesi che questa svolta non pregiudica i loro diritti, che l’America «non abbandona il suo impegno a un processo di pace, né compromette lo statuto finale che vi avrà Gerusalemme». In teoria lascia aperta la possibilità che la città santa delle tre religioni monoteiste abbia anche funzione di capitale di una Palestina sovrana, almeno a Gerusalemme Est. Un’ipotesi che lo stesso Trump sfuma assai quando conferma la sua adesione al principio di due Stati, ma solo «se concordato fra le due parti». La formulazione non preclude un ripudio di quel principio da parte del governo israeliano come vorrebbero alcune fazioni estreme. Il gesto di Trump aggiunge un colpo di scena ad una storia iniziata 70 anni fa con il riconoscimento dello Stato d’Israele da parte di Truman, democratico. Seguì un presidente repubblicano, Dwight Eisenhower, capace di equidistanza e di comprensione verso le ragioni del mondo arabo: intervenne nel 1956 a bloccare l’aggressione contro l’Egitto lanciata nel canale di Suez da Francia, Inghilterra e Israele. La destra americana si spostò su posizioni più filo-israeliane ma senza abbandonare, almeno fino a George Bush Senior, una capacità di criticare Israele. Con Bush Junior cominciò un’altra storia, segnata dal ruolo degli evangelici protestanti come roccaforte elettorale della destra. Il fondamentalismo cristiano che è diventato il più sicuro serbatoio di voti repubblicani ha integrato nella propria identità culturale l’alleanza con Israele con espliciti riferimenti alla Bibbia.

L’11 settembre 2001 quella visione messianica incrociò la lettura dei neoconservatori sullo “scontro di civiltà” e la guerra mondiale al fondamentalismo islamico. Pur essendo privo di sensibilità religiosa, Trump ha raccolto da Bush Junior quella constituency, così come l’appoggio della parte più conservatrice della comunità ebraica americana (non maggioritaria ma generosa di finanziamenti elettorali). Netanyahu venne apposta in America in piena campagna elettorale per dare una mano alla destra: accettò un invito del tutto irrituale dei parlamentari repubblicani, senza neppure avvisare Barack Obama. Fra Netanyahu e Trump sbocciò un idillio, confermato dalla visita a maggio. Ora Trump paga i debiti: con il portatore di voti straniero, con le constituency americane più radicali e più fedeli. Ma i semi di questa decisione storica risalgono a 22 anni fa, è nel 1995 che il Congresso di Washington votò per trasferire l’ambasciata.

Francesca Caferri: "Tra i palestinesi: 'Pronti a difendere casa nostra' "

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Francesca Caferri


È sera e lungo Salehddine Road, una delle arterie principali di Gerusalemme Est, la parte araba della città contesa, tira un vento gelido. In giro ci sono poche persone: effetto del freddo e della pioggia, dicono i titolari dei caffè e dei ristorantini, ma anche della presenza della polizia. Le macchine bianche e blu israeliane passano in continuazione, dall’interno gli agenti scrutano la strada guardinghi. «Non succederà nulla oggi, è inutile che passino. Le conseguenze di quello che sta per succedere le vedrete fra due anni, non adesso», dice minaccioso un uomo mentre addenta un panino con il figlio. All’improvviso si ferma, e con lui tutto il negozio: sugli schermi della televisione appare Donald Trump. Qualche minuto, e poi le frasi che tutti si aspettavano: Gerusalemme è la legittima capitale dello Stato di Israele e per questo l’ambasciata americana sarà trasferita qui. L’uomo butta via il panino, indispettito: «Non basta un presidente americano a fermare la Storia, questa è anche casa nostra: non decide lui», dice trascinando via il figlio senza lasciare il nome. La furia di questo padre è lo specchio del sentimento che si respira per le strade della parte araba della città contesa: se a Gaza sin dalla mattina ci sono state dimostrazioni proseguite fino a notte, con foto di Trump e le bandiere americane bruciate, Gerusalemme Est al primo sguardo appare tranquilla. Ma basta parlare con la gente per capire che la rabbia è forte: «Cosa vi aspettavate, che scendessimo in strada adesso? Per farci sparare? È chiaro che qualcosa accadrà, non possiamo accettare quello che ha detto Trump», dice Muhammad, che della tavola calda che serve kebab è uno dei gestori. Gli israeliani questo lo sanno benissimo: lungo le mura della città, in corrispondenza delle porte vecchie di millenni, stazionano macchine della polizia e dell’esercito. Intorno al consolato americano lo spiegamento di forze è massiccio: nel pomeriggio sembrava che potesse trasformarsi in un luogo di protesta, ma la pioggia e il vento hanno disperso i pochi che erano arrivati. Il dipartimento di Stato ha diffuso una nota invitando gli americani alla massima prudenza in tutta la regione. Quando Trump finisce di parlare nelle stradine della città vecchia si sentono solo i rumori dei passi dei militari di pattuglia: qualche ora prima del discorso sulle antiche mura erano state proiettate le bandiere degli Stati Uniti e di Israele. Ma di fare festa, al di là delle dichiarazioni ufficiali del governo, pochi qui sembrano aver voglia. Il movimento che contesta il primo ministro Benjamin Netanyahu dalle parole di Trump sembra aver preso forza. Sabato tornerà in strada per chiedere le dimissioni del primo ministro. «Per il presidente americano è facile parlare.

È a migliaia di chilometri di distanza. Ma noi siamo qui e pagheremo le conseguenze delle sue parole», dice Dorit Rabinyan, una delle scrittrici israeliane della nuova generazione, diventata famosa con un libro, “Borderlife”, che racconta la storia d’amore fra una giovane ebrea e un palestinese. «È il classico battito di ali di farfalla: un movimento che appare minimo nel luogo dove avviene, ma è capace di provocare un uragano dall’altra parte del mondo». Come tanti Rabinyan teme una nuova ondata di violenza e le reazioni palestinesi fanno temere che abbia ragione. In un’intervista ad Al Jazeera, il responsabile politico di Hamas Ismail Haniyeh ha parlato dell’inizio di «un periodo di terribili trasformazioni per tutta la regione» e diverse fazioni hanno diffuso un comunicato congiunto invitando la popolazione a «tre giorni di rabbia». Da parte sua il presidente Mahmoud Abbas ha parlato di «decisione inaccettabile». A Salehddine Road Abbas non è troppo popolare, soprattutto fra i giovani: «Troppi compromessi, troppa corruzione. È anche per colpa sua se siamo a questo punto», sintetizza Hassan, 23 anni, che con tre amici ha seguito il discorso dal telefonino nel negozio di jeans in cui uno di loro lavora. Con il suo ottimo inglese e sempre connesso sui social, Hassan pare il ritratto perfetto di una generazione che dal processo di pace sente di non aver più niente da guadagnare. «La realtà — dice — è che ci hanno abbandonato tutti. Trump non avrebbe fatto questa dichiarazione se non fosse stato d’accordo con i sauditi, che sono d’accordo con Netanyahu. Ma Gerusalemme non sarà mai solo per gli ebrei: nessuno come gli abitanti di Gerusalemme sa difendere questa città. E lo faremo».

Wlodek Goldkorn: "Impossibile unirla o dividerla il destino della città-mondo"

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Wlodek Goldkorn

Impossibile unirla, impossibile dividerla. Resta solo da sperare nell’intervento dell’Onnipotente ma anche lui può mettersi di traverso, causa eccesso di emozioni e interpretazioni degli umani. Si dice che nel giugno 1967 Moshe Dayan, l’allora ministro della Difesa d’Israele, avesse posto ai colleghi del governo la domanda: «Ma davvero abbiamo bisogno di questo Vaticano?». Intendeva la Città Vecchia e il chilometro quadrato in cui si concentrano a Gerusalemme i luoghi santi dei tre monoteismi. Lo stesso premier Levi Eshkol esitò prima di dare l’ordine di conquistare quel fazzoletto di terra. Come andò a finire si sa: è storia. Ma ancora nel 1993 Shimon Peres, all’epoca ministro degli Esteri e architetto degli accordi di riconoscimento tra Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, alla domanda dell’inviato dell’Espresso su cosa fare con il chilometro quadrato in cui si trovano la Spianata delle Moschee, detta anche Monte del Tempio, il Muro del Pianto e la chiesa di Santo Sepolcro, rispose: «Bisogna trasferirlo alla sovranità di Dio». Voleva dire: talvolta la ragione deve arrendersi al simbolo. Facile a dirsi, salvo che le persone, i quasi 900 mila abitanti di quella che Donald Trump ha riconosciuto, contro il mondo intero, come la capitale dello Stato ebraico, vivono non solo di simboli e sogni di Redenzione (l’anno prossimo a Gerusalemme significa l’anno prossimo il Messia). La realtà della città eletta a dimora di Dio è fatta da divisioni e conflitti. Fin dalla sua struttura Gerusalemme, più che un agglomerato urbano coeso (una piazza, un centro di potere secolare e uno spirituale, strade di commerci e luoghi residenziali) è un insieme di isole e di enclave: ognuna con i suoi usi e costumi e in guerra con gli altri. Non è solo colpa dell’occupazione militare. La città era divisa fin dalla seconda metà dell’Ottocento, epoca in cui le potenze europee riscoprirono nel cuore del decadente Impero ottomano il suo valore simbolicoe geopolitico. Investirono soldi e cultura, vi mandarono missionari e archeologi, spie e commercianti, costruirono chiese e ospizi. Ognuno, Russia e Germania, Austria-Ungheria e Gran Bretagna, per conto suo e contro gli altri; tante piccole enclave. E stando al libro di Vincent Lemire, “Gerusalemme. Storia di una città-mondo” (Einaudi), perfino durante la guerra del 1948 sia i leader ebrei che quelli arabi miravano alla spartizione della città e non al potere su tutta la Gerusalemme. Finì con la cacciata degli ebrei dal loro quartiere in Città Vecchia e con l’esodo dei palestinesi dalla parte occidentale. Diciannove anni dopo quel conflitto, nel 1967, gli israeliani conquistarono l’intera città. Ne ampliarono i confini, inclusero una ventina di villaggi e cittadine palestinesi. Rasero al suolo le case davanti al Muro del Pianto, per rendere il luogo degno dello status di centro dell’esperienza spirituale ebraica. Tutto questo sembra ovvio, ma non lo era e forse non lo è; per i sionisti dalla fine dell’Ottocento e fino agli anni Settanta del Novecento Gerusalemme era un richiamo romantico; la prassi era invece altrove, nei kibbutz e sulla riva del Mediterraneo, nella nuova e moderna Tel Aviv.

Sapevano che Gerusalemme divide e non unisce perché parla del passato e non del futuro. Lo diceva Meron Benvenisti, a suo tempo vicesindaco, uomo di pace, incaricato a fine anni Sessanta di integrare le due parti principali e fino ad allora separate della città, l’Ovest abitato dagli israeliani e l’Est popolato dai palestinesi. Ma il conflitto non è solo di carattere nazionale; pure la maggioranza ebraica (due terzi della popolazione) è divisa al suo interno. Ci sono quartieri dove l’ortodossia è legge: uomini separati dalla donne; niente abiti succinti; strade dove una signora laica rischia pesanti insulti. E del resto, altra anomalia della città, nella politica locale molte persone di sinistra appoggiano l’attuale sindaco Nir Barakat, che è invece di destra. Lo fanno per arginare l’offensiva dei fondamentalisti religiosi ebrei. E poi ci sono i palestinesi residenti: liberi di muoversi nello Stato d’Israele, ma privi di cittadinanza. L’atmosfera nei loro quartieri non è differente da quella di Ramallah o Nablus, cuore della Cisgiordania. Gerusalemme est sarà pure parte della capitale dello Stato ebraico, ma assomiglia a una città dell’Autonomia palestinese. E per capire quanto Gerusalemme divida basti pensare che le chiavi della Chiesta di Santo Sepolcro sono nelle mani di una famiglia musulmana; una misura per rendere innocuo un altro conflitto; quello tra le denominazioni cristiane per il controllo del luogo in cui ebbe sepoltura Gesù.

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