Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 04/12/2017, a pag. 29, con il titolo 'Una storia di giovani sbandati che racconta le vite di tutti noi', il commento di Fulvia Caprara.
Fulvia Caprara
I protagonisti del film. Secondo da destra Ram Nehari, il regista
Il viaggio verso Tel Aviv del regista Ram Nehari, vincitore del Tff con Don’t Forget Me, è pieno di allegro stupore: «Eravamo tutti molto felici di essere stati invitati al Festival, ma i premi non ce li aspettavamo, sono stati una vera sorpresa. Abbiamo iniziato a capire qualcosa solo all’ultimo momento, guardando le facce sorridenti di quelli dello staff».
La locandina
Nel suo primo lungometraggio, premiato anche per le prove dei due protagonisti Moon Shavit e Nitai Gvirtz, il regista, ex studente di cinema e televisione presso la Tel Aviv University, ha convogliato una lunga esperienza di vita e di lavoro: «Ho iniziato con il teatro e da 15 anni faccio corsi con persone che hanno disagi psichici. Abbiamo realizzato insieme spettacoli e video, mi piace moltissimo il loro tipo di creatività, e il film nasce da una di queste prove». La storia si basa sulla realtà esistenziale di Moon Shavit: «È stata in un ospedale per la cura dei disturbi alimentari, abbiamo iniziato a lavorare insieme, ci interessava il vissuto suo e delle persone come lei».
Tutto questo superando barriere e diffidenze: «Siamo stati accettati perché abbiamo subito fatto capire che non eravamo lì per emettere giudizi e che, per noi, non esistevano differenze tra gente che ha problemi e gente che non ne ha».
Girato in tre settimane, a basso budget, grazie a un accordo di coproduzione tra Israele, Francia e Germania («Abbiamo avuto il sostegno dell’Israel Film Fund, poi ognuno ha messo quello che poteva e ce l’abbiamo fatta»), Don’t Forget Me racconta una vicenda di gioventù sbandata ma non cede mai alla trappola del pietismo: «Ho una passione per le commedie romantiche eccentriche - spiega Nehari - sebbene detesti le storie d’amore e sia terribilmente cinico. Il film si basa sulle mie esperienze e contiene tutte le mie ossessioni, quello che mi fa ridere e quello che mi dà fastidio. È importante che la gente, vedendolo, si diverta. Far ridere le persone è la mia battaglia per il rispetto di sé. Al contrario, cercare di far commuovere il pubblico è un po’ come invocare la sua pietà».
Il paesaggio in cui si muovono i due protagonisti, l’anoressica Tom, ricoverata in clinica e gettata nel panico dalla notizia del miglioramento delle sue condizioni di salute, e il musicista Neil, suonatore di tuba con difficoltà di socializzazione, influenza le loro pulsioni, nel bene e nel male: «L’unico posto in cui Tom si trova a suo agio è la zona di Tel Aviv in cui vivono gli immigrati, lì non si sente giudicata e riesce a stabilire un vero contatto umano». In altri contesti la comunicazione con quello che Ram Nehari definisce «crazy country» è molto più difficile.
Il desiderio di Neil di andare a vivere a Berlino e il fatto che non abbia un vero accento israeliano sono, per il padre di Tom, macchie inconcepibili: «Ci sono persone che hanno un modo tutto loro di concepire il patriottismo, la volontà di trasferirsi in un’altra città è interpretata come una maniera per non contribuire alla crescita del proprio Paese. Sono persone che usano l’Olocausto per giustificare il loro odio. Persone che non amiamo».
L’esordio dietro la macchina da presa è arrivato, per Nehari, dopo anni di cortometraggi e film tv. E il riconoscimento del Tff, ricevuto dalla giuria presieduta da Pablo Larrain, regista che lui ammira moltissimo, conferma una scelta chiara, fatta molto tempo fa: «Sapevo di voler fare il regista da quando avevo dieci anni e infatti ho girato tanto per la tv, ma non pensavo di passare al cinema. Se il film ha raggiunto questo risultato è perché fin dall’inizio lo abbiamo concepito e portato avanti tutti insieme».
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