Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 03/12/2017, a pag.29, con il titolo "Un amore randagio nella realtà israeliana conquista Torino" la cronaca di Alessandra Levantesi Kezich del TFF (Torino Film Festival) dove ha vinto il film israeliano dal titolo "Al Tishkechi Oti/Don’t Forget Me". Premiati regista e interpreti.
La vittoria del film israeliano viene ripresa oggi da molti quotidiani, anche se lascia perplessi la quasi comune attitudine dei critici a segnalare quanto l'avrebbero meritato altri film in concorso. La critica della Stampa non fa eccezione.
Alessandra Levantesi Kezich Una immagine del film vincitore
Il regista Ram Nehari
Verdetto per nulla scontato quello della giuria internazionale del 35° Torino Film Festival. Probabilmente molti festivalieri si sarebbero aspettati di trovare nel Palmares la divertente e disincantata satira di Morto Stalin se ne fa un altro dello scozzese Armando Iannucci, entusiasticamente premiata per la sceneggiatura dagli studenti della Holden. Oppure il bel documentario A Voix Haute di Stephane De Freitas - un inno al potere dialettico della parola attraverso lo stage di oratoria di una classe multietnica dell’Università di Saint Denis - che ha conquistato le preferenze del pubblico torinese; o l’altrettanto ottimo documentario insignito del Cipputi, Lorello e Brunello, dove Jacopo Quadri disegna con estrema limpidezza formale lo spaccato di un microcosmo rurale che rispecchia i problemi globali del clima e dell’industrializzazione neo capitalista delle campagne. Ma il consesso presieduto dal grande cineasta cileno Pablo Larrain ha evidentemente preferito privilegiare un tipo di cinema meno codificato, con attori inediti e tematiche nascoste fra le righe della storia: un cinema di cui l’israeliano Al Tishkechi Oti/Don’t Forget Me, premiato per il miglior film e per l’attore Nitai Gvirtz, è ottimo esempio. Regista finora televisivo, Ram Nehari ha messo a frutto in quest’opera d’esordio un’appassionata esperienza di lavoro negli istituti psichiatrici, dove da anni insegna recitazione e mette su spettacoli: imbastendo in collaborazione con gli interpreti un’erratica commedia romantica, innervata del dolore e del disagio psichico dei due protagonisti, una ragazza anoressica e un suonatore di tuba afflitto da disturbi mentali. Il film tuttavia mantiene un tono lieve grazie al costante flusso umoristico che permea dialoghi e situazioni, suggerendo in filigrana, con un’ironia mai cinica, i problemi di una società tuttora intenta a elaborare il trauma della Shoa. Molti titoli stimolanti Un discorso analogo potrebbe valere per l’ondivago ma sottilmente scritto Daphne di Peter Mackie Burns: premio migliore attrice a Emily Beecham per il suo vibratile ritratto di una giovane donna, esistenzialmente instabile in una Londra dove il gap fra ricchi è poveri è sempre più ampio. Oltre che condivisibile, il riconoscimento dà indirettamente conto del peso che nel Festival, come ogni anno stimolante e ricco di proposte, ha avuto il cinema britannico/americano: personale dedicata a Brian De Palma, apertura con Finding Your Feet, chiusura con The Florida Project; e tante pellicole, per lo più di livello per non parlare della recitazione, sparse nelle varie sezione. Biopic letterari come Mary Shelley e L’uomo che inventò il Natale; suggestivi western come Wind River di Tyler Sheridan con Jeremy Renner; incisivi ritratti di artisti, come l’Alberto Giacometti/Geoffrey Rush di Final Portrait (regia di Stanley Tucci) o il Tom Wiseau/James Franco di The Disaster Artist. E su tutti svetta a nostro avviso Darkest Hour, in uscita a gennaio, dove Joe Wright racconta in modo complementare al collega Christopher Nolan - incredibile, nel giro di pochi mesi due film sullo stesso tema ed entrambi fantastici! - i giorni di Dunkirk visti dalle stanze del potere: con un Gary Oldman/Churchill, ingrassato truccato strabiliante, con l’Oscar già in mano.
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