Oh ghetto amore mio
Eduardo Halfon
Giuntina euro 8,00
La copertina
Il nuovo libro di Eduardo Halfon, uno dei più importanti scrittori sudamericani contemporanei, insignito nel 2011 della prestigiosa Guggenheim Fellowship, è un breve ma suggestivo memoir edito da Giuntina con un titolo “Oh ghetto amore mio” che richiama una delle canzoni cantate da un sarto ebreo nel ghetto di Lodz.
Dopo “L’angelo letterario” (Cavallo di ferro) del 2012, una sorta di viaggio nella grande letteratura alla ricerca dell’angelo (o demone) che spinge l’uomo a intraprendere l’arte della scrittura, con “Il pugile polacco” (Rubettino, 2014), un insieme di storie e personaggi declinati fra reportage, racconto e intervista, conosciamo nel racconto che dà il titolo al libro la storia del nonno materno deportato ad Auschwitz e salvato grazie ai consigli di un pugile conosciuto nel campo di sterminio che i nazisti tenevano in vita per il divertimento sadico di vederlo combattere. Nell’ultima opera “Oh ghetto amore mio” Halfon intraprende un viaggio a Lodz, la città natale del nonno, emigrato in Guatemala dopo aver perso i suoi familiari nei campi di sterminio. Durante la sua lunga esistenza il nonno non ha mai voluto tornare in Polonia, il paese che lo aveva tradito “…era pieno di risentimento verso i suoi compatrioti e la sua lingua materna. Non aveva mai più pronunciato una parola in polacco. I polacchi, mi diceva, ci hanno traditi”.
Per tutta la vita ha impedito al nipote di recarsi a Lodz e anche negli ultimi giorni, ormai debilitato e stanco, oppone con rabbia un nuovo rifiuto ribadendo che “un ebreo non sarebbe mai dovuto andare in Polonia”. Poco dopo però porge a Eduardo un foglietto giallo con poche righe scritte di suo pugno: è l’indirizzo della casa di Lodz che consegna al nipote come un’eredità. Grazie all’aiuto di madame Maroszek, una matrona non ebrea dalla storia familiare controversa che “aveva dedicato la vita ad aiutare i familiari degli ebrei di Lodz”, l’autore ripercorre i passi del nonno e si reca a visitare i luoghi simbolo della persecuzione nazista, a conoscere le persone che ora abitano nella casa del nonno, offrendo l’immagine di un popolo che non ha ancora fatto i conti con il passato e tracciando un quadro nitido della storia complessa della Polonia dall’inizio del dominio prussiano, dopo più di cento anni di autonomia, fino all’occupazione nazista. Dal racconto emergono figure e luoghi di grande forza evocativa come l’unico ristorante di cucina ebraica di Lodz che si chiama Anatevka, il nome dello shtetl in un racconto di Sholem Aleichem, come il vecchietto perennemente seduto nell’ascensore dell’Hotel Savoy che pare non capire il cognome dell’autore perché troppo estraneo alla sua realtà o come la donna che ora abita l’appartamento del nonno e accoglie la richiesta di Halfon di visitare quelle stanze con sconcerto e diffidenza.
“…Sembrava che si fosse appena alzata dal letto. O con i postumi di una sbornia. La sua espressione, in ogni caso, non era affatto amichevole”. Il tema della Memoria percorre tutto il libro come un’esigenza interiore dell’autore che attraverso essa si riappropria di un’identità frammentata e sofferta, restituendoci un nuovo prezioso tassello da aggiungere alla memorialistica della Shoah. Prima del commiato madame Maroszek dona all’autore tre libri di memorie ebraiche, un gesto che conferma il valore della scrittura quale luogo di incontro e di riconciliazione e quindi l’importanza del racconto scritto come mezzo per tramandare la Memoria e sconfiggere l’oblio del tempo. Il breve memoir di Eduardo Halfon è un’opera di cui consiglio la lettura per la prosa ricca di immagini, odori e colori, oltre che per le tematiche complesse che affronta senza alcuna retorica. E’ un caleidoscopio di situazioni e personaggi emotivamente coinvolgenti, costruiti con rigore e perfezione stilistica quello che emerge dalle pagine di Halfon, uno scrittore di talento che con il suo libro ci invita a ricordare che “i libri sono minuscole lampade per orientarci nel cammino della vita, ma anche per illuminare il passato e far tesoro delle esperienze vissute”.
Giorgia Greco