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Il Foglio Rassegna Stampa
29.11.2017 Polonia/Ungheria: la crescita dell'antisemitismo e le ambiguità dei governi
Commenti di Micol Flammini, Maurizio Stefanini

Testata: Il Foglio
Data: 29 novembre 2017
Pagina: 1
Autore: Micol Flammini - Maurizio Stefanini
Titolo: «In Polonia niente shopping la domenica - 'Antisemitismo implicito' in Ungheria»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 29/11/2017, a pag. I, con il titolo "In Polonia niente shopping la domenica", l'analisi di Micol Flammini; con il titolo " 'Antisemitismo implicito' in Ungheria", l'analisi di Maurizio Stefanini.

La presenza di un forte antisemitismo in Polonia e Ungheria non è mai cessata. Negli ultimi anni, sotto la spinta di forze e movimenti dell'estrema destra razzista e xenofoba l'antisemitismo si è reso sempre più esplicito, come sottolineano gli articoli. La cifra del governo ungherese, in particolare, è l'ambiguità: non un atteggiamento di antisemitismo esplicito, ma l'utilizzo e la tolleranza di numerosi stereotipi tipici delle campagne antisemite del Novecento.

Ecco gli articoli:

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Victor Orban

Micol Flammini: "In Polonia niente shopping la domenica"

 

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Beata Szydlo

Roma. “L’Europa ci giudica, ma non fa sforzi per capirci”, dice al Foglio Adam Abramowicz, deputato del partito Prawo i Spawiedliwosc, il Pis di Beata Szydlo e Jaroslaw Kaczynski che nel 2015 ha vinto le elezioni in Polonia stravolgendo il rapporto tra i polacchi e Bruxelles. “La sinistra, le politiche liberali e l’Ue hanno deluso la società”, dice il parlamentare, “noi abbiamo atteso, sapevamo come sarebbe finita e ora ci occuperemo di ridare ai polacchi la loro identità”. Da incarnazione del più riuscito tra i miracoli europei, la Polonia si è trasformata nella rigida espressione del nazionalismo di Visegrad. Al bando lo shopping domenicale. Via dai libri di scuola i poeti omosessuali. Al cappio (metaforico, ma non troppo) gli eurodeputati. Tutte mosse che la Polonia sta giustificando nel nome della salvaguardia dell’identità nazionale, tra molte critiche all’estero e all’interno del paese. La manifestazione dell’11 novembre, che da festa per l’indipendenza polacca si è trasformata in rivendicazione dura dell’orgoglio nazionalista, ha scosso il paese. Varsavia ha restituito al mondo l’immagine di una città divisa, violenta, incattivita. Una città che rivendica l’esistenza di una “Polo - nia pura, Polonia bianca”, come gridavano i manifestanti del corteo, mentre ai fumogeni e alle bandiere polacche combinavano cori razzisti, antisemiti e islamofobi. Il Pis ha dovuto prendere le distanze: “L’Ue deve capire che noi non siamo l’estrema destra”, dice il parlamentare. “Siamo l’argine a queste violenze nate per colpa del Po”. Piattaforma civica (Po), il partito liberale di Donald Tusk, è accusato dal gruppo di Kaczynski di aver asservito le necessità e le caratteristiche nazionali alle volontà europee. Ma nonostante l’argine gli scandali non si sono fermati. Domenica scorsa, a Katowice, città industriale nei pressi di Cracovia, si è svolta un’impiccagione simbolica. I rappresentanti del partito di estrema destra Onr hanno appeso a delle forche il ritratto di sei eurodeputati del Po che hanno votato a favore della risoluzione con la quale il Parlamento Ue ha ammonito Varsavia per il mancato rispetto dello stato di diritto, una votazione diretta alle politiche del Pis. “Ri - peto, noi non siamo l’estrema destra, ci discostiamo dai fatti di Katowice”, dice Adam Abramowicz.

“Siamo un partito razionale, non vogliamo lasciare l’Ue, le chiediamo solo di riconoscere le nostre caratteristiche nazionali. Questo vogliono i polacchi”. Questa settimana, infine, il Parlamento ha votato una legge che mira a mettere al bando l’apertura domenicale dei negozi, una mossa che dovrebbe accontentare la chiesa polacca. “La legge farà solo male all’economia”, spiega Kinga Dunin, sociologa e scrittrice. “Sono cattolica, ma questo sodalizio tra chiesa e governo sta diventando inquietante”. Per la Dunin, “il Pis in meno di due anni ha stravolto ogni cosa: la legislazione, la stampa e la società. Ogni aspetto delle nostre libertà è a rischio”. Dall’ingresso nell’Ue nel 2004, la Polonia è diventata sempre più multietnica, cosmopolita. Complici le multinazionali che hanno deciso di dislocare le loro sedi approfittando delle agevolazioni fiscali che i governi, sapientemente, avevano ideato per rendere attraenti le maggiori città polacche. Sono arrivate Bosch, Mariott, Coca-cola, Zepter, Deloitte e con loro tanti stranieri.

Una trasformazione, però, avvenuta solo in superficie. “L’Europa deve capire che ogni nazione ha il diritto di scegliere la propria strada”, dice Abramowicz. “I polacchi sono sempre stati un popolo aperto, ma oggi dobbiamo preservarci”, dice. “Quello che va bene per gli italiani e i francesi, non può andare bene per noi o per gli ungheresi. Se l’Ue non rispetta le nostre radici dobbiamo imporci”. L’ossessione identitaria di cui soffre il Pis sta tradendo una parte di Polonia che invece si sente rappresentata dal cosmopolitismo che, a fatica, la nazione ha conquistato in questi ultimi anni. “Abbiamo perso tanto a causa del nazismo, questa nazione era molto tollerante, per questo la più grande comunità ebraica viveva qui”, spiega la Dunin. “La perdita della componente ebraica è andata a scapito della nostra cultura. Non siamo una nazione razzista, ma sono molto preoccupata per gli ultimi eventi. L’Ue per noi è stata una conquista e ora ha il compito di proteggerci. Non siamo l’Ungheria, qui c’è una forte opposizione, ormai scendiamo in piazza quasi ogni settimana per dire che l’Europa è parte della nostra identità”.

Maurizio Stefanini: " 'Antisemitismo implicito' in Ungheria"

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Maurizio Stefanini

Roma. “Sembra di essere tornati agli anni Trenta. Le immagini della campagna del governo ungherese contro George Soros sembrano davvero un ritorno a certi toni di antisemitismo degli anni Trenta”. Nato in Slovacchia, Julius Horvath è un economista che insegna in quella Central European University di cui Soros promosse la fondazione a Budapest nel 1991, e che il governo di Viktor Orbán ha preso duramente di petto – non soltanto con una legge che ne minaccia l’esistenza. Horvath si riferisce al fatto che è stata mandata alle famiglia ungheresi dal governo una lettera con la foto di Soros in cui si denuncia che il miliardario vorrebbe far venire in Ungheria un milione di migranti all’anno, da finanziare con l’equivalente di 30 mila euro di sussidi pubblici a testa. Dall’altra la stessa foto è apparsa in un manifesto con l’esortazione: “Non lasciate a George Soros l’ultima risata”. “Il cosiddetto piano Soros in realtà non esiste”, ricorda Horvath. E aggiunge: “Sebbene la campagna evochi chiaramente i toni della propaganda antisemita degli anni Trenta, non viene mai detto che Soros è ebreo”. Si può anche ricordare che dopo le proteste della comunità ebraica ungherese e anche dell’ambasciata israeliana a Budapest il governo Netanyahu ha ricordato che anch’esso è in rotta con Soros, e il primo ministro israeliano è venuto in visita a Budapest. “Sì. Non si può parlare di antisemitismo puro, nel momento in cui il governo ha buone relazioni con Israele”, riconosce Horvath. “Però allo stesso tempo il governo fa chiaramente appello ai sentimenti antisemiti di una parte della popolazione”.

Secondo la sua analisi, “all’inizio Orbán ha acquisito popolarità opponendosi al Fondo Monetario Internazionale, con ricette di economia non ortodossa che effettivamente hanno aiutato l’Ungheria a risollevarsi. Poi ha tuonato contro la corruzione della sinistra. Ma adesso anche il suo partito è coinvolto in vari scandali, e la lotta alla corruzione è diventata la bandiera dello Jobbik. Era un partito di estrema destra,ora si è spostato al centro e sta addirittura trattando con la sinistra. A questo punto per recuperare Orbán sta facendo chiaramente appello a un retroterra psicologico duramente antisemita. Quell’Ungheria profonda delle campagne che vede da sempre con rancore e sospetto la cosmopolita Budapest”. Dunque, “la parola giusta è: ambiguità. Abbracci con Netanyahu assieme a messaggi che sono antisemiti in modo implicito ma non esplicito”. Secondo Horvath, però, un po’ tutta la retorica di Orbán si basa sull’ambiguità. “Attacca l’occidente, però quando nelle interviste gli chiedono se vorrebbe allora uscire dalla Ue o dalla Nato risponde che non se lo sogna minimamente. Dice che la democrazia liberale è una realtà del XIX secolo ormai superata, loda la democrazia non liberale alla Putin o alla Erdogan, ma in Ungheria non ci sono prigionieri politici e anche la stampa è libera. Più che altro la presa del regime si percepisce nella occupazione della tv di Stato.

E’ anche singolare che con tutta la sua retorica xenofoba poi abbia costruito rapporti straordinariamente buoni con quei paesi vicini rispetto ai quali invece in passato l’ultranazionalismo ungherese si era sempre scontrato. Lui non se la prende con i croati o con gli slovacchi, ma con i democratici statunitensi, che sono lontani e neanche si accorgono di lui”. Come ci racconta Horvath, “la Ceu fu creata per dare formazione in quelle materie dove l’insegnamento dato nel periodo comunista era diventato ormai completamente inadeguato alla nuova realtà. Infatti non insegna Fisica o Medicina ma Scienze Umane e sociali, Diritto, Public Policy, Business Managment, Scienze ambientali. È organizzata come un'istituzione accademica di stile americano, con il riconoscimento del New York State Education Department”. In teoria la legge che il Parlamento ungherese ha approvato non menziona la Ceu. Però stabilisce che le università straniere possono operare in Ungheria solo a condizione di disporre di una sede anche nel paese di provenienza: e la Ceu sarebbe appunto l’unica istituzione a essere colpita”. Come vivono nell’Università questa spada di Damocle? “Bah, noi che siamo cresciuti sotto il comunismo ci abbiamo più o meno fatto il callo a questo tipo di situazioni. Però vedo che i docenti che vengono dall’occidente o comunque da paesi sviluppati sono molto spaventati. Non riescono a capire come si possa essere considerati nemici dello stato da un momento all’altro”.

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