Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 27/11/2017, a pag.9, con il titolo "Dopo il Califfato la sfida fra i Grandi nella Siria lacerata", l'analisi di Giordano Stabile.
Giordano Stabile
La Siria del dopo Isis marcia spedita. Il vuoto lasciato dalla distruzione del Califfato viene riempito dalle potenze regionali e mondiali e il riassetto coinvolge anche l’Iraq. Due novità sono emerse nel giro di 48 ore e puntano a sbloccare i punti più difficili. La prima è la telefonata fra Donald Trump a Recep Tayyip Erdogan, incentrata sulla questione curda, con la promessa dello stop delle forniture militari ai curdi siriani, considerati «terroristi» da Ankara. La seconda è l’offerta di Bashar al-Assad a Israele: una zona demilitarizzata profonda 40 km a ridosso del Golan. Dietro entrambe c’è lo zampino di Vladimir Putin, organizzatore del summit di Soci. Trump gli ha chiesto di venire incontro alle esigenze turche e israeliane per arrivare alla quadratura del cerchio: una Siria di nuovo unita ma suddivisa in zone di influenza che possano soddisfare tutti, America e Russia, Turchia e Iran.
Erdogan con Assad: incontro tra dittatori
Al vertice Assad non era invitato, un modo per mantenere un’equidistanza almeno di facciata fra governo siriano e opposizione. Il giorno prima però il raiss è però stato ricevuto sul Mar Nero con tutti gli onori, e un abbraccio caloroso. Doveva ingoiare due bocconi indigesti. Il via libera a un’area sotto controllo turco nel Nord-Ovest della Siria e concessioni a Israele. Lo Zar sembra averlo convinto, se non altro perché lo ha salvato da una sconfitta quasi sicura nel 2015, in cambio della permanenza delle basi russe a Tartus e Lattakia. Subito dopo Erdogan ha cambiato tono e parlato di possibilità di contatti diretti con il «governo di Damasco», non più definito un «regime».
La questione curda
Damasco ha già risposto con l’idea, da parte del ministro dei trasporti Ali Hamud, di riaprire la linea ferroviaria fra Giordana, Siria e Turchia, un’arteria fondamentale per le esportazioni sia siriane sia turche. La quadratura del cerchio rischia però di stritolare i curdi. Il Kurdistan siriano è sorto e si è espanso prima con la benedizione di Assad, che vedeva nei curdi una diga contro la Turchia e i gruppi ribelli islamisti alleati. Poi con l’appoggio dell’America che ha usato la fanteria curda inquadrata nelle Forze democratiche siriane (Sdf) per annientare l’Isis a Raqqa.
La presenza americana, forze speciali e reparti di artiglieria pesante dei Marines, è cresciuta di pari passo, tanto che nei giorni scorsi il Pentagono ha ammesso che i militari presenti in Siria non sono 500 ma 1700. Secondo i curdi «resteranno per decenni» in loco. Non è detto. La promessa di Trump a Erdogan sulla fine delle forniture di armi fa presagire un possibile ritiro americano. Il Pentagono ha precisato che si tratta soltanto di una «rimodulazione» degli aiuti dopo la conquista di Raqqa, già in programma. Ma il timore dei curdi è quello di essere «scaricati», come in parte è successo ai fratelli del Kurdistan iracheno.
La dirigenza politica curda, con il copresidente Saleh Muslim, ha così aperto canali di dialogo con Damasco. Se salta l’indipendenza sotto l’ombrello Usa, i curdi puntano a un’autonomia all’ombra di Assad. In ogni caso Erdogan è pronto a raccogliere un discreto bottino: ha ottenuto una sua zona di influenza, tanto più ampia quanto più i curdi saranno ridimensionati, e ha bloccato il loro progetto di indipendenza.
La marcia dei Pasdaran
Ma è Teheran che finora ha raccolto il bottino più grosso nella distruzione del Califfato. I Pasdaran hanno fornito addestramento e assistenza alle milizie sciite libanesi, siriane, irachene risultate decisive nella sconfiggere lo Stato islamico sia in Siria che in Iraq. Per la Repubblica islamica l’annientamento dell’Isis significa anche l’apertura di un «corridoio sciita» fino al Mediterraneo. Per la prima volta dal 1979 Teheran ha governi amici in Iraq, Siria e Libano, e dispone di una via di terra che lega la capitale iraniana a Beirut.
La marcia dei Pasdaran ha fatto salire l’allarme in Israele ai massimi livelli. Il premier Benjamin Netanyahu è arrivato a minacciare di «bombardare il palazzo presidenziale di Assad» se la presenza militare iraniana in Siria dovesse diventare «permanente». L’America ha premuto sulla Russia perché ottenesse concessioni dalla Siria e dall’Iran. L’offerta di Assad a Netanyahu, rivelata dal quotidiano kuwaitiano Al-Jarida, è un primo segnale.
Se l’offensiva diplomatica dovesse fallire, resta l’opzione militare. Israele ha già fatto sapere che si tiene «le mani libere» per eventuali raid contro gli iraniani in territorio siriano. Il Pentagono ha allargato la sua presenza militare. In Siria dispone di tre aeroporti e 12 basi nella zona curda, più un’altra base nel Sud, ad Al-Tanf. In Iraq ha quasi diecimila uomini, basi nel Kurdistan iracheno e lungo il corso del Tigri e dell’Eufrate. La sua zona di influenza sarà più che altro di «garanzia» per Israele, concentrata nella Siria meridionale e a cavallo della frontiera con l’Iraq, per sorvegliare il «corridoio sciita».
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