'L’abbandono degli ebrei è inscindibile da quello dei ceti popolari'
Marianne intervista Georges Bensoussan
(Traduzione italiana di Yehudit Weisz)
Georges Bensoussan
Lo storico, imputato in una causa legale per aver denunciato, come alcuni intellettuali arabi, l’antisemitismo di matrice arabo-musulmana, fa un’analisi della condizione in cui versano gli ebrei in Francia.
Marianne: Cosa si evince da questa sua esperienza? La realtà di cui soffre il nostro Paese?
G.B.: Questo processo, che non si è ancora concluso (ci sarà un appello il 29 marzo 2018) è emblematico dello stato della società. In realtà non avrebbe mai dovuto esistere, perché, come ha dimostrato la sentenza che mi ha prosciolto il 7 marzo scorso, nei miei propositi non c’era stata alcuna stigmatizzazione di una popolazione, ma solo e semplicemente la volontà di esprimere, per mettere all’erta, quel che sanno tutti coloro che hanno legami con quel mondo: l’antisemitismo per lungo tempo era parte integrante del codice culturale del Maghreb, dove furono allevati e cresciuti un notevole numero di bambini che, tuttavia, conservano la capacità di liberarsi di questo retaggio, di riacquistare la propria libertà, sull’esempio della bella figura di Abdelghani Merah (fratello di Mohammed, l’autore degli attentati di Tolosa e Montauban, nel 2012; Abdelghani è invece un militante algerino che combatte contro l’ISIS. N.d.T.). Dopo l’udienza del 25 gennaio 2017, molti casi hanno dato conferma alle mie affermazioni. A febbraio è scoppiato il caso Mehdi Meklat con le sue migliaia di twitter omofobi, misogini e antisemiti, che non hanno impedito ai benpensanti di incensare il “Rimbaud delle periferie”. Non appena sono venute a galla le accuse di aggressioni sessuali contro Tariq Ramadan, i social network hanno evocato un “complotto sionista” e qualificano la prima donna che l’ha denunciato, musulmana di nascita, di essere una “puttana sionista”. La stessa ondata di odio antiebraico contro Charlie Hebdo. Nel frattempo, al processo di Abdelkader Merah, si veniva a sapere che , “in famiglia, la madre e gli zii hanno sempre ribadito che gli Arabi sono nati per odiare gli ebrei”. Questo antisemitismo, che non è stato importato dal Paese colonizzatore (anche se talvolta questo l’ha sostenuto e manipolato), una parte dell’ élite francese si rifiuta di prenderlo in considerazione, come aveva già fatto sessant’anni fa, quando si era rifiutata di ascoltare Albert Memmi, che raccontava come la condizione degli ebrei maghrebini non fosse certo stata idilliaca.
Marianne : Lei ha avvertito attorno a sé solidarietà oppure, al contrario, una convergenza di attacchi?
G.B. : Entrambe le cose. All’inizio del processo (ottobre 2015) si è innescata una mobilitazione, che continua tuttora, e che è confluita in un’associazione. Nel contempo ha puntato su di me i suoi strali la cultura dell’estrema sinistra, minoritaria a livello di opinione pubblica, ma assai potente nei media e nelle università, che ha contribuito a imbavagliare questo Paese. Gli ebrei che vivono in Francia, ed in particolare quelli dei ceti popolari della comunità, si sentono abbandonati. E lo saranno ancora di più domani, sacrificati sull’altare della pace civile e del vivere insieme. E il loro abbandono è politicamente inscindibile dall’abbandono dei ceti popolari, ignorati da una borghesia integrata e “aperta al mondo”. Quando, dopo lungo tempo, ci si è resi conto dell’avvenuto divorzio tra una certa sinistra e i ceti popolari, di rado si è fatto il collegamento tra questo abbandono dei ceti popolari e l’abbandono di una comunità ebraica divenuta ingombrante, come una critica silenziosa ad una vigliaccheria diffusa. Si ha una paura tale che la sua sola presenza fomenta la rabbia dei “quartieri sensibili” e, quindi, costringe a trovare coraggio.
Antisemitismo islamista in Francia
Marianne: Come definirebbe questo antisemitismo?
G.B.: E’ una novità soltanto per tutti coloro che si sono rifiutati negli ultimi quindici anni di ascoltare i segnali di allarme, anche dopo gli assassini commessi da Mohammed Merah, la strage al Museo Ebraico di Bruxelles e quella dell’Hyper Cacher nel 2015. Fino al calvario di Sarah Halimi, il 4 aprile 2017 , a Parigi. Un antisemitismo che inoltre, dà voce ad una giudeofobia tradizionale (estrema destra e ambienti ultra cattolici), la cui espressione in pubblico tendeva a ridursi. Nel 1969 , Robert Linhart lavorava come operaio alla catena di montaggio della “2CV” in Citroën . In un libro autobiografico, intitolato L’établi (Ed. Minuit, 1978) Linhart aveva riportato questo dialogo tra lui e il suo compagno della catena di montaggio, un marocchino di nome Ali (il libro è dedicato proprio a lui): “A qualunque cosa che io gli dica o gli chieda, lui risponde energicamente: No, non faccio mai così, è da ebreo” Io: Cosa significa “è da ebreo”? Lui: vuol dire che non va bene, che non si deve fare così” E qualche riga più sotto: “Mi fermo. “Ascolta, Ali, so quel che dico, io stesso sono ebreo.” E lui, senza battere ciglio, con un indulgente cenno del capo e quasi sul punto di sorridermi: “Ma tu non puoi essere ebreo. Tu sei uno a posto; ebreo, indica una cosa che non si deve fare.” Questa è la matrice, per così tanto tempo passata inosservata, di questo antisemitismo, aggravato dallo sradicamento e da un’integrazione più o meno riuscita. Come si può dimenticare, a tal proposito, l’appello apparso sulla Tribuna del Journal du dimanche del 31 luglio 2016 e firmato da molti intellettuali di origine musulmana (http://www.lejdd.fr/Societe/Religion/TRIBUNE-Nous-Francais-et-musulmans-sommes-prets-a-assumer-nos-responsabilites-800095), che nell’elenco degli attentati che hanno insanguinato la Francia in diciotto mesi, ha omesso le vittime ebree dell’Hyper Casher?
Marianne : Come possiamo contrastare il rigurgito mortale degli stereotipi antisemiti?
G.B. : Bisogna avere il coraggio di chiamare le cose col loro nome. E di finirla con questi accomodamenti che, “per non stigmatizzare una popolazione già messa al bando”, fanno rimanere indifferenti di fronte ad un antisemitismo ripugnante come davanti ad altre violenze, in particolare di natura sessuale, tanto che la paura sembra la parola chiave per descrivere una parte delle classi dirigenti. Bisogna chiamare le cose con il loro nome e poi riflettere sulla convinzione che un insegnamento più approfondito della Shoah crei una barriera, con il suo stesso oggetto, all’antisemitismo. Ebbene, in Francia questo insegnamento è di quelli meglio impartiti a livello europeo. Ma la Francia è anche il Paese in cui gli ebrei hanno più paura, come rivela un’inchiesta europea del 2013, da cui si evince che quasi un ebreo su due ha pensato di lasciare il suo Paese, e che il 60% teme di venir aggredito per la strada “perché ebrei”… Inoltre, la demonizzazione dello Stato di Israele apre la porta ad ogni forma di violenza. La giustifica. Nel mentre, passo dopo passo, segue lo schema degli anni trenta. All’ebreo “nemico del genere umano” o “il popolo di troppo” di ieri, oggi subentra “lo Stato di troppo che minaccia la pace del mondo”. Con il pretesto della critica (legittima) alla politica israeliana, la demonizzazione dello Stato suona come la negazione del diritto dello Stato ebraico ad esistere. In ultima analisi, le parole rassicuranti lasciano intatta la solitudine degli ebrei che vivono in Francia. “Guardate la Francia del 2017, scriveva magistralmente qualche giorno fa Jacques Julliard, e capirete come l’indifferenza e la vigliaccheria siano state, in passato, tra i più potenti generatori delle tragedie collettive”.