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La Stampa Rassegna Stampa
19.11.2017 La 12a:una pagina non degna della Stampa
Servizi di Leonardo Martinelli, Paolo Mastrolilli, Giordano Stabile

Testata: La Stampa
Data: 19 novembre 2017
Pagina: 12
Autore: Leonardo Martinelli - Paolo Mastrolilli - Giordano Stabile
Titolo: «Hariri fa tappa dal mediatore Macron: 'Tornerò a Beirut e chiarirò tutto' - L’avvertimento di Trump ad Abu Mazen - La lotta alla corruzione di Salman spaventa gli investitori stranieri»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 19/11/2017, a pag. 12, con il titolo "Hariri fa tappa dal mediatore Macron: 'Tornerò a Beirut e chiarirò tutto' ", il commento di Leonardo Martinelli; con il titolo "L’avvertimento di Trump ad Abu Mazen", il commento di Paolo Mastrolilli; con il titolo "La lotta alla corruzione di Salman spaventa gli investitori stranieri", il commento di Giordano Stabile. 

Una brutta pagina la 12 della Stampa di oggi. L'articolo di Paolo Mastrolilli (ma che gli succede?) sembra una velina dell'Autorità palestinese, quello di Leonardo Martinelli lascia spazio al gossip sui capelli di Hariri e riporta solo la versione iraniana e di Sigmar Gabriel (delle cui posizioni anti-Israele abbiamo più volte scritto su IC: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=66196). Quello di Stabile, già dal titolo, è estremamente critico dell'operato anticorruzione di Mohammed bin Salman, e tace i suoi sforzi per portare stabilità in Medio Oriente. Nel complesso, una pagina non degna della Stampa.

Ecco gli articoli:

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Leonardo Martinelli: "Hariri fa tappa dal mediatore Macron: 'Tornerò a Beirut e chiarirò tutto' "

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Leonardo Martinelli

All’apparenza rilassato, stretto nel suo completo blu e con il solito gel tra i capelli, Saad Hariri, premier libanese dimissionario, si è rivolto ieri ai giornalisti, uscendo dall’Eliseo. Non ha chiarito i dubbi principali al suo riguardo: era sincero il 4 novembre scorso, quando ha rinunciato al potere? O è stato obbligato dalle autorità saudite, da sempre il riferimento politico (e di business) per la sua ricca famiglia? Hariri, però, una cosa l’ha detta: ritornerà a Beirut «nei prossimi giorni e al più tardi mercoledì», per le celebrazioni della festa nazionale. E spiegherà in quel momento, «dopo aver incontrato il presidente Michel Aoun», se manterrà le sue dimissioni o meno.

Aveva da poco terminato di pranzare con Emmanuel e Brigitte Macron, accompagnati da Lara, la consorte del premier libanese, e dal figlio maggiore, Ossam, venuto da Londra, dove studia. Mancavano i due più piccoli, Abdelazziz e Lulwa, rimasti in Arabia Saudita, «perché lì sono a scuola», ha specificato un diplomatico francese. Ma è possibile lasciare due figli adolescenti a Riad in tale contesto? Ancora un lato oscuro di questa storia.

Hariri ha ringraziato Macron e «la Francia, che ha mostrato ancora una volta quanto sia grande il suo ruolo nel mondo e nella regione».
Una cosa è certa. «Invitando» Hariri (è il termine utilizzato, specificando «il primo ministro» e non un ex), Macron è riuscito a sbloccare una situazione che si stava avvitando su se stessa. Hariri ha potuto lasciare Riad, in mezzo ai sospetti che lì fosse un prigioniero, ma con il passaggio da Parigi, «invitato» dai francesi, si è riusciti a non far perdere la faccia al principe Mohammed bin Salman, uomo forte in Arabia Saudita, che sarebbe all’origine delle dimissioni, volute per protesta contro il peso crescente di Hezbollah (e dello suo sponsor Iran) sul Libano. La Francia ha fatto giocare le buone relazioni con Riad e pure un rapporto «passabile» con Teheran. Ma giovedì Jean-Yves Le Drian, ministro francese degli Esteri, in Arabia Saudita a gestire direttamente l’affaire, si era visto costretto a criticare le «tentazioni egemoniche dell’Iran». E il giorno dopo Macron aveva invitato Teheran «a una strategia regionale meno aggressiva» e a «rivedere il suo programma balistico». La risposta degli iraniani non si è fatta attendere: ieri, stizziti, a dire sostanzialmente che non c’è nulla da rivedere e che Parigi si faccia i fatti suoi.

Sempre scivoloso intervenire su questa intricata vicenda libanese. Lo sanno bene anche i tedeschi. Il ministro degli Esteri Sigmar Gabriel aveva accennato giovedì alla possibilità che Hariri fosse prigioniero a Riad. Ebbene, ieri, per protesta, l’Arabia Saudita ha richiamato il suo ambasciatore da Berlino.

Paolo Mastrolilli: "L’avvertimento di Trump ad Abu Mazen"

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Paolo Mastrolilli

L’amministrazione Trump vuole chiudere la missione consolare dell’Autorità palestinese a Washington, se non si impegnerà nei negoziati di pace con Israele. Una minaccia a cui il ministro degli Esteri dell’Autorità, Riyad Malki, ha risposto accusando il segretario di Stato Tillerson di ricatto, mentre il leader Abu Mazen ha detto di non essere disposto a cedere. E in serata Saeb Erekat, fedelissimo di Abu Mazen, ha minacciato di congelare i contatti con gli Usa. L’Autorità non ha una vera ambasciata a

Washington, ma una missione consolare che serve a gestire passaporti, visti e altre pratiche dei palestinesi che vivono negli Usa. Il suo permesso di operare deve essere rinnovato ogni sei mesi, e stavolta Tillerson ha deciso di non farlo. La ragione sta in un cavillo di legge che impone la chiusura del consolato, se l’Autorità chiede alla Corte penale internazionale di processare cittadini israeliani per reati contro i palestinesi. Abu Mazen avrebbe violato questa regola durante il suo intervento all’Assemblea generale dell’Onu. In quella occasione aveva chiesto alla Corte di «aprire un’inchiesta e processare i funzionari israeliani per il loro coinvolgimento nella attività relative agli insediamenti e le aggressioni contro il nostro popolo». Per Tillerson queste parole costituiscono una violazione della legge, e ora Trump ha 90 giorni di tempo per decidere se chiudere il consolato. Una maniera per evitare il provvedimento sarebbe la ripresa dei negoziati di pace con Israele, sulla base delle linee generali a cui hanno lavorato negli ultimi tempi il genero del presidente, Jared Kushner, e l’inviato speciale Jason Greenblatt. Se i palestinesi avvieranno «trattative dirette e concrete con Israele», l’ufficio americano potrà restare aperto. Malki ha parlato di «ricatto», aggiungendo che non ha intenzione di piegarsi. Nabil Abu Rudeineh, portavoce di Abu Mazen, ha aggiunto che si tratta di «una minaccia pericolosa che fa perdere agli Usa lo status di mediatore. Dà un colpo agli sforzi per promuovere la pace, e un premio a Israele, che sta cercando di deragliare le iniziative Usa con gli insediamenti e opponendosi alla soluzione dei due stati. Noi non abbiamo ricevuto alcuna idea o documento dagli Usa riguardo i 2 negoziati, nonostante i molti incontri avuti».

Giordano Stabile: "La lotta alla corruzione di Salman spaventa gli investitori stranieri"

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Giordano Stabile

Ora gli «espropri principeschi» spaventano il mondo degli affari e gli investitori in Arabia Saudita. Anche se la lotta alla corruzione lanciata dall’erede al trono Mohammed bin Salman è vista come un cambiamento positivo, che sul lungo termine porterà a un’economia di mercato più efficiente, sul breve periodo la preoccupazione è che possa innescare una fuga di capitali e bloccare gli investimenti necessari alla realizzazione delle riforme.

L’obiettivo è giusto, i metodi lasciano perplessi. Soprattutto il blocco dei conti correnti dei sospettati, compresi alcuni fra i più importanti uomini d’affari sauditi, e il rilascio di alcuni in cambio del versamento nelle casse dello Stato di ingenti somme di denaro, come è emerso nei giorni scorsi. Principi e businessmen rinchiusi nel sontuoso Ritz Carlton sono un’immagine che piace alla popolazione, e portano consensi al futuro re e alla sua lotta contro le «élite corrotte».
Ma sono quelle stesse élite ad avere i più stretti rapporti con il mondo degli affari in Occidente e nella regione.

Un importante investitore libanese, che preferisce rimanere anonimo, sintetizza così: «Hanno tutti paura di essere il prossimo». Il giro di vite non guarda in faccia nessuno, ha coinvolto l’uomo più ricco dell’Arabia Saudita, Alwaleed bin Talal, ma anche il potentissimo ex capo dei servizi Bandar bin Sultan al-Saud. E adesso nessuno si sente al sicuro. «Il programma di riforme Vision 2030 – continua il businessman libanese – necessita di centinaia di miliardi di investimenti: liberarsi della corruzione è la precondizione perché possa funzionare, ma con il blocco dei conti, l’esproprio di intere aziende, spaventa più che incentivare, chi si metterebbe in affari con qualcuno che può perdere tutto da un giorno all’altro?».

La Vision 2030 punta a diversificare l’economia e a ridurre la dipendenza dal settore petrolifero, che fornisce il 95 per cento degli introiti per lo Stato. Ma l’arresto di personaggi come Alwaleed bin Talal, ha sottolineato per esempio il Financial Times, «può affossare l’interesse degli investitori internazionali». Le autorità saudite hanno cercato di minimizzare. La lotta alla corruzione, ha sottolineato il governatore della Saudi Arabian General Investment Authority, Ibrahim al-Omar, serve proprio a proteggere gli investitori «dalle pratiche contrarie alla legalità». Come i contratti vinti solo in base alle «buone connessioni» con gli ambienti politici, pratica diffusa nella regione. Ma la spiegazione non convince fino in fondo. Soprattutto se il crackdown viene abbinato al ritardo nella privatizzazione parziale, il 5%, della mega compagnia petrolifera di Stato, la Saudi Aramco.

Rumours sempre più insistenti legano gli «espropri principeschi», che potrebbero fruttare oltre 100 miliardi di dollari, alla mancata cessione di quote dell’azienda. Il 5 per cento dell’Aramco, secondo le stime più diffuse, equivale proprio a 100 miliardi di dollari. L’anno scorso il deficit pubblico ha toccato i 110 miliardi, pari a un astronomico 17 per cento del Pil. Mohammed bin Salam deve colmare il buco nei conti pubblici e trovare le risorse per le riforme. Dopo una dura austerity, con il taglio degli innumerevoli sussidi ai cittadini - per la casa, l’elettricità, la benzina - è tornato in parte sui suoi passi per non rischiare di perdere l’appoggio popolare. La lotta alle «élite corrotte» necessita anche di un pizzico di populismo. Ma spaventa gli investitori. La strada è davvero stretta per l’ambizioso principe ereditario.

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