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Il pragmatico fronte sunnita anti-Iran non esiste più Analisi di Zvi Mazel (Traduzione di Angelo Pezzana)
Vladimir Putin e Donald Trump sono d’accordo sul fatto che non è possibile alcuna soluzione militare alla crisi siriana. L’America sta adottando la politica di disimpegno dell’ex presidente Obama e abbandona il Medio Oriente a Russia e Iran. Questo improbabile coordinamento strategico tra i due grandi poteri è il rintocco funebre della rinascita del grande fronte anti-iraniano degli Stati pragmatici sunniti – Arabia Saudita, Emirati e Egitto – che il leader americano aveva orgogliosamente annunciato durante la sua visita a Road lo scorso maggio. Non si è mai realizzata veramente in parte a causa della rottura con il Qatar e in parte per il comportamento ambivalente dell’Egitto verso l’Iran, oggi che il Cairo ha rafforzato i suoi legami con Mosca, allineandosi le proprie posizioni sulla Siria con il nuovo alleato.
L’Arabia Saudita, rendendosi conto che nessun intervento americano era in arrivo e quindi sentendosi isolata, ha scelto di spingere il primo ministro libanese a dimettersi, innescando una crisi in Libano per far capire ai media e all’opinione pubblica mondiale almeno l’esistenza del terrorismo iraniano che si sta impadronendo del Libano, minacciando non solo l’area del Golfo ma l’intero Medio Oriente. Le conseguenze della cosiddetta primavera araba ha cancellato le speranze di democrazia e ha inaugurato una diffusione dell’islam estremista sunnita, che ha abbattuto nazioni quali Iraq, Siria, Libia e Yemen, bloccando il ritorno alla stabilità della regione. In Siria, i grandi poteri e gli Stati arabi stanno giocando col fuoco. L’interminabile guerra civile non ha portato altro che sofferenze alla popolazione siriana. L’intera situazione - umanitaria, sociale, politica ed economica – è così terribile che ci vorranno anni per rimettere in sesto il paese, sempre che sia possibile. La maggioranza sunnita non accetterà prontamente di tornare a vivere nel regime dittatoriale alawita: i kurdi rifiuteranno lo smantellamento della loro di fatto autonomia che si sono conquistati combattendo lo Stato Islamico nel nord della Siria. D’altro canto, né Assad, né Iran o Russia vogliono elezioni controllate da una supervisione internazionale che finirebbe nella mani dei sunniti che sono la maggioranza, che però non intendono sprecare tempo nel denunciare Assad e i suoi alleati per i loro crimini di guerra, volendo invece espellere l’Iran con i suoi alleati Hezbollah e le cosiddette milizie popolari sciite, che sono invece organizzazioni terroristiche iraniane. In più, gli accordi che permettono alla Russia di mantenere una presenza militare nel Mediterraneo potrebbero essere facilmente rescissi. Detto questo, è impensabile una fine totale della crisi siriana, ma soltanto accordi limitati e parziali. Per esempio in merito alle cosiddette zone pacificate, senza più guerre, in modo che i profughi possano ritornarvi. Potrebbero essere rese più sicure da una cooperazione fra Russia, Iran e Turchia, con il tacito consenso degli Stati Uniti e il sostegno dell’Egitto. In questo modo la presenza dell’Iran in Siria verrebbe riconosciuta ufficialmente. Quattro zone sono state identificate, ma le forze di Assad continuano a sparare, assistite da Iran e Russia, aiutate in questo dalla debolezza dei ribelli, il cui destino è incerto.
Il vincitore è senza ombra di dubbio l’Iran. Si è posizionato solidamente nel paese e non c’è in vista nessuno che possa cacciarlo. Ha raggiunto il suo obiettivo di penetrare in profondità nel territorio mediorientale, mentre Russia e America stanno a guardare. La sua presenza viene giudicata molto forte in Iraq, Yemen, Siria e Libano. Sposta le sue ubbidienti milizie sciite dall’Iraq alla Siria e Libano, mentre fornisce ai ribelli houthi in Yemen equipaggiamenti militari sofisticati. L’Arabia Saudita è sempre più inquieta, circondata com’è da ogni parte, mentre l’Iran apertamente organizza gli attacchi anche contro gli Emirati alleati con l’aiuto delle minoranze sciite del Golfo. Khomeini vedeva nel regno saudita la pietra d’inciampo maggiore alle proprie aspirazioni di imporre un regime sciita nella regione, ma glielo impediva il fronte sunnita allora guidato dall’Egitto. Il suo successore Khamenei persegue lo stesso obiettivo con significativi successi. Sottoscrivendo l’accordo nucleare con i suoi più fedeli alleati, il presidente Obama ha di fatto gettato nella confusione il fronte sunnita, dando libero sfogo a Teheran. Il presidente egiziano Sisi, boicottato dal presidente americano, si è rivolto alla Russia, sviluppando stretti legami militari, politici ed economici con Mosca, arrivando infine a condividere la permanenza al potere di Assad in Siria. Questo ha causato una spaccatura con l’Arabia Saudita che ha danneggiato l’economia egiziana. Sisi aveva ospitato al Cairo diverse riunioni con i ribelli siriani, invitandoli a partecipare al summit di Astana, capitale del Kazakhstan, dove Russia, Turchia e Iran hanno disegnato la prossima mappa della Siria. L’Arabia Saudita aveva sperato invano che Trump sarebbe ricorso al vecchio Fronte Sunnita, persino all’uso della forza contro l’Iran, come aveva fatto in Afghanistan contro lo Stato Islamico e in Siria, dove aveva ordinato di abbattere gli Sharyat usati dalle forze siriane per gli attacchi chimici contro la città di Khan Sheikhoun. Ora l’America va a braccetto con la Russia e accetta la presenza iraniana in Siria, dimostrando così ancora una volta l’incapacità dell’America di essere una presenza significativa nella regione e di prevenire un successo dell’Iran e dei suoi alleati. Ha anche abbandonato i kurdi, anche loro fedeli alleati. Non solo si era opposto al referendum per indipendenza del Kurdistan autonomo iracheno, non l’aveva protetto non fermando le forze irachene che arano state equipaggiate per attaccare i kurdi con l’aiuto delle milizie sciite. Così Iraq e kurdi, due alleati che l’America aveva istruito ed equipaggiato per combattere uniti lo Stato Islamico, adesso erano in guerra fra loro mentre Washington rimaneva neutrale, senza neppure tentare una tregua. Riad sa bene quanto sia impossibile confrontare la forza militare dell’Iran con la propria, come di è visto nella guerra contro lo Yemen. È probabile che oggi, confidando nella sua posizione strategica nel cuore del Medio Oriente e la forte influenza nello stabilire il prezzo del petrolio nel mondo, possa portare a una maggiore comprensione nel rapporto con l’Iran. Se il presidente francese, durante una visita negli Emirati, non avesse incontrato il principe ereditario e informato sulle dimissioni di Saad Hariri, una vicenda che avrà pericolose ripercussioni in Medio Oriente e persino in Europa, chi avrebbe investito negli Stati del Golfo? Vi è poi il rischio di una nuova ondata di rifugiati. L’Occidente, che per lungo tempo si è rifiutato di riconoscere la presa del potere in Libano di Hezbollah e la volontà dell’Iran di creare non solo stazioni militari nel paese, ma forse anche fabbriche di missili, non può continuare a ignorare quel che sta avvenendo. Lo rivelano i rapporti delle milizie sciite che addestrano gli Hezbollah nel campi militari nella valle della Beqaa. Israele monitorizza senza sosta le attività dell’Iran in Siria, affermando ripetutamente che non permetterà al fronte del terrore di svilupparsi. Si è opposta agli sforzi di Hezbollah di creare una base vicino alle Alture del Golan. Dopo un lungo lavoro di lobbying a Mosca e Washington, è stato firmato un memorandum dai due poteri e dalla Giordania di respingere le forze non siriane (Hezbollah,Iran, milizie sciite e ribelli siriani, i Fatah Eshams) venti chilometri a sud ovest della Siria, lungo i confini di Giordania e Golan. Anche se è ancora fin troppo poco per la sicurezza di Israele. Arabia Saudita e Israele, i due maggiori bersagli dell’Iran, combatteranno se saranno aggrediti, ciascuno a proprio modo, nella speranza che l’America voglia finalmente rispettare i suoi obblighi verso i propri alleati. Prima che sia troppo tardi e un nuovo ciclo di violenza cominci.
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