Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, a pag. 15, con il titolo "La crociata dei monaci buddisti in Asia: 'Via i musulmani, sono una minaccia' ", l'analisi di Carlo Pizzati.
L'ideologia islamica, oltre ad essere politica è anche religiosa, e non colpisce soltanto le democrazie occidentali. Per questo abbiamo ripreso il servizio di Carlo Pizzati sulle violenze musulmane contro i buddisti.
In rosso, la Birmania
I giganteschi cartelloni sovrastano il panorama nell’autostrada che porta verso l’aeroporto, sopra le vie delle grandi città, tappezzano i centri commerciali: la testa di un Buddha marchiata da una grande croce rossa per indicare il divieto a esportare sculture sacre, ma anche la proibizione severa di non indossare immagini del Buddha. Niente musica Buddha Bar, niente Buddha Chic o Buddha Fashion: è tutto blasfemo nella Thailandia che riscopre un fondamentalismo buddista che sta dilagando anche nello Sri Lanka e in Birmania, cioè nelle tre nazioni del buddismo Theravada del Sud-Est asiatico.
L’anziano re è stato sepolto da pochi giorni a Bangkok e già l’immagine di suo figlio ricopre altri poster nella metropoli più cosmopolita dell’Asia contemporanea. Buone notizie per la giunta militare, visto che il nuovo re sta lasciando mano libera ai golpisti. Ma mentre nel 2007 i monaci buddisti protestavano pacificamente contro il governo, ora la nuova generazione di monaci usa parole e fatti ben più belligeranti. Contro l’Islam.
Profughi Rohingya
La paura dell’invasione
Incitare alla violenza è uno dei quattro atti proibiti che causano la scomunica dall’ordine dei monaci buddisti, quindi si parla solo di atti di violenza per difendersi, mai per attaccare. Difendersi da chi? Da un’esigua minoranza islamica che si percepisce come impegnata in una guerra demografica per occupare il Paese.
Ma si parla anche di una possibile minaccia esterna. Alla frontiera del Sud thailandese le schermaglie con i nemici islamici aumentano. E i soldati scortano i monaci fino ai templi, cosa che non piace ai cittadini musulmani, perché vedono i militari come il braccio armato di un buddismo sempre meno pacifista. Tant’è che un monaco è stato davvero scomunicato per quest’editto: «Per ogni buddista ucciso, bruceremo una moschea».
Eppure in questi Paesi i buddisti sono maggioranza schiacciante: il 93% in Thailandia, in Birmania l’88 e nello Sri Lanka il 70. Nonostante ciò, molti monaci si sentono in stato d’assedio. E incitano a reagire.
Per giustificarlo, i teologi vanno a rivangare i testi sacri. A proposito delle guerre in difesa del Buddha ingaggiate dal suo benefattore, il re Pasenadi, il fondatore di questa religione proclamò che «uccidendo, vinci il tuo uccisore, conquistando hai la meglio su chi ti conquisterà». Violenza chiama violenza.
Tradizione e testi sacri
Questo, per i buddisti militanti del Sud-Est asiatico vuol dire che il Buddha aveva capito che la violenza non è necessariamente un valore negativo in assoluto. È sbagliato l’uso aggressivo della forza, ma esiste il diritto di autodifesa. Così, contenere l’espansione delle comunità islamiche viene interpretato come un modo per tutelare il buddismo. Anche a costo di incitare al genocidio.
Secondo la Grande Cronaca dei cingalesi buddisti dello Sri Lanka, dopo una battaglia contro i Tamil induisti, il re Dutugamunu, roso dal rimorso per il massacro causato, chiese consiglio agli anziani monaci che gli risposero che in realtà aveva ucciso solo una persona e mezza: un buddista e un laico recentemente convertito. Il resto degli induisti? «Miscredenti, uomini dalla vita malvagia, da considerare come bestie». Queste sono le argomentazioni usate anche dal monaco cingalese trentasettenne Galagoda Atte Ganasara, fondatore del Bodu Bala Sena (BSS), la Forza del Potere Buddista, ora attiva in tutto il Sud-Est asiatico buddista.
Ed ecco spiegato anche il contesto del massacro dei rohingya nel Nord della Birmania. Anche a Yangon c’è un leader carismatico buddista che s’è già guadagnato la copertina di «Time» incitando a questa cosiddetta forma di «autodifesa attiva».
Estremisti e nazionalisti
Il «bin Laden birmano», com’è stato ribattezzato il monaco che si fa chiamare solo Wirathu, è chiarissimo. «Non è il momento per la calma. È il momento di reagire, il momento di far ribollire il sangue». Si definisce un cane da guardia: «Non mordo, ma abbaio per svegliare i padroni di casa e far sì che si difendano. I musulmani si riproducono in fretta, ci rubano le donne, le violentano. Vorrebbero occupare il nostro Paese. Ma non glielo permetterò. La Birmania deve restare buddista».
Ed è infatti questa la linea di difesa del clero buddista a Rakhine, la regione al confine con il Bangladesh dove l’esodo della minoranza musulmana sta continuando, e dove si prevedono altre decine di migliaia di arrivi nei campi profughi nei prossimi giorni: non causare feriti e morti direttamente, in quanto monaci, ma incitare le milizie paramilitari buddiste a farsi giustizia da soli e a cacciare la «minacce interne» alla Birmania buddista.
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