Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 13/11/2017 a pag. 1-3, con il titolo "Nel cuore di Beirut dove gli sciiti non temono la guerra" l'analisi di Giordano Stabile.
Giordano Stabile
L'assassinio di Hariri padre
Nel quartiere di Dahiya, lungo la superstrada che porta all’aeroporto, le scritte gialle e verdi «Ya Hussein» sulle bandiere nere degli sciiti sono ingrigite dall’incredibile inquinamento che tormenta Beirut, pure una città sul mare, benedetta dalla brezza in questi miti giorni di novembre.
Saad Hariri
La giornata è ideale per una passeggiata o, per chi vuole, una corsa assieme ai ventimila che partecipano alla Maratona, la più suggestiva del Medio Oriente. La maggior parte delle famiglie però si accontenta di un gelato. Il Muharram, il mese del lutto per il massacro di Karbala, si è concluso da poco e il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, venerdì scorso ha esaltato i «14 milioni di fedeli musulmani» che sono andati in pellegrinaggio al santuario dell’imam Hussein in Iraq. Non li ha definiti «sciiti» ma musulmani.
Un altro segno della lenta, impercettibile mutazione del Partito di Dio, che vuole apparire meno settario e per certi versi «nazionale», libanese. Il discorso di venerdì è stato per la gran parte incentrato sulla crisi scatenata dalle dimissioni del premier Saad Hariri. A Dahiya l’umore della gente non è molto diverso da quello nei quartieri a maggioranza sunnita o cristiana. «L’ultima cosa che vogliamo noi libanesi è un’altra guerra, ma non dipende da noi, le decisioni le prendono all’estero», spiega Hanadi Jabar, insegnante, due figli adolescenti: «La sensazione è che non scoppierà: i sauditi non sono in grado di attaccarci e anche Israele sa che Hezbollah è una delle più grandi forze in Medio Oriente, non gli conviene».
Sul fatto che Hariri sia «prigioniero a Riad» nessuno ha dubbi. E questo ha risvegliato il debole sentimento nazionale libanese: «Anche se le sue idee politiche sono all’opposto delle nostre – è il concetto – è un libanese, un’aggressione a lui è un’aggressione a tutto il Libano». I beirutini sono sempre beirutini, di qualunque confessione. Un po’ ci ricamano con la fantasia, un po’ ci scherzano con l’ironia tagliente che li contraddistingue. All’opposto di Dahiya, nel quartiere armeno di Burj Hammoud, il clima è lo stesso. «Il principe pazzo», cioè Mohammed bin Salman, spiegano i commercianti nel mercatino lungo l’unica, polverosa, via pedonale, ha sequestrato il «povero Hariri» e vuole scaricare le sue frustrazioni sul Libano «dopo aver preso batoste in Siria e Yemen».
Per Hezbollah, in questa comunità di discendenti dagli armeni sfuggiti al grande massacro del 1915, non c’è grande simpatia, ma gli sciiti non suscitano le paure ancestrali legate al fanatismo sunnita, incarnato dall’Impero ottomano o da qualche condottiero arabo. La lunga barba nera del «principe pazzo» ricorda troppo quella degli «sceicchi» sauditi, maghrebini o libici «mandati in Siria a imporre la sharia e a massacrare i cristiani». Su questo spartiacque fa leva la politica di Hezbollah, almeno dal 2009, quando il movimento sciita ha cambiato la sua carta fondamentale e ha aperto al «multiculturalismo e al multi-confessionalismo» come modello per il Libano.
È stato il primo passo per un’alleanza strategica con i cristiani, culminata l’anno scorso con l’elezione del generale Michel Aoun alla presidenza e la formazione del governo di unità nazionale guidato da Hariri. Gran parte del lavoro ideologico lo ha svolto Kamal El Hage, filosofo amico dell’imam Moussa Sadr, autore del concetto di «naslamiyya», una convergenza fra islam e cristianesimo. Hezbollah in questi giorni sta paradossalmente raccogliendo i frutti di una crisi che doveva metterlo con le spalle al muro. Il generale Aoun, un nazionalista cristiano che alla fine degli Anni Ottanta ha combattuto contro musulmani e siriani, ora incarna la nuova linea di unità, e martella le cancellerie arabe e occidentali: vuole che Hariri «venga restituito al Libano».
La gente è con lui. Alla maratona gli striscioni erano tutti per il ritorno del premier: «Corriamo per te, torna a Beirut», «Rivogliamo il nostro primo ministro», in attesa dell’annunciata intervista alla tv Mustaqbal, Futuro, quella del suo partito. Ma nessuno sembra credere che il leader dei sunniti libanesi se ne stia in Arabia Saudita di sua volontà. «O è prigioniero o è ricattato», spiega Jeanine, una ragazza di Ashrafieh, il quartiere bene cristiano, in tutina e maglietta rosa per la corsa. Sui social invece si è scatenata la satira. Un tweet che va forte è quello della locandina di «Salvate il soldato Ryan» che diventa «Salvate il soldato Saad» con il presidente Aoun al posto del protagonista (interpretato da Tom Hanks) che sacrifica la sua vita per riportare a casa il giovane militare.
L’altro concetto tutto beirutino è «mesci al-alhal», le cose vanno avanti, «la vita continua». Un’altra vignetta sui social mostra un uomo che fuma beato il narghilè in riva al mare: sopra l’immagine con la scritta «prima» (della crisi con l’Arabia Saudita), sotto la stessa immagine, identica, con la scritta «dopo». Una città che andava a ballare anche sotto i bombardamenti durante la guerra civile, non cambia le sue abitudini. La maratona è stata affollata come se niente fosse, la corsa si è srotolata dal margine di Burj Hamoud attraverso i quartieri vicini al mare e poi lungo la Corniche, la passeggiata che culmina alle Rocce dei Piccioni, l’immagine iconica di Beirut. I tavolini dei locali si sono riempiti di gente che si è fermata a metà strada e ha preferito prendersi un aperitivo. «Tutti qui sono per la vita, non per la guerra», commenta una ragazza al trendy «Sud» di Mar Mikhail. Tutta la gente, «Kill nas», nell’accento libanese, considerato il «parigino» fra i dialetti arabi. Nel Golfo avrebbero detto «Kullu» con un tono un po’ gutturale. Due mondi lontanissimi.
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