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Il pericolo più grande Cari amici, con il dovuto rispetto alle molte persone intelligenti e preparate che si occupano di sondaggi e in primo luogo al bravo e acuto ricercatore Renato Mannheimer, devo confessare che non mi fido molto dei dati che emergono da queste consultazioni, non solo perché so bene che taluni mentono agli intervistatori per i più diversi motivi e molti comunque ammorbidiscono le loro posizioni se le sentono come fuori dal coro; ma soprattutto perché molta gente non fa quel che dice e non dice – neppure a se stessa – quel che fa, insomma evita di chiarire davvero le proprie posizioni e si rifugia nel vago o semmai in quel che ritiene essere il parere più diffuso. Dunque, come si è visto spesso, i sondaggi servono solo in parte a prevedere i comportamenti elettorali e al massimo possono indicare delle tendenze, dei problemi, dei punti sensibili che non hanno rappresentanza politica sufficiente. Per esempio, Israele e i pericoli che corre lo stato ebraico.
Ne esce fuori che la netta maggioranza degli ebrei americani (il 57%) si considera tutt’ora dopo otto anni di Obama e la progressiva affermazione degli estremisti di Sanders sopra i fallimentari resti delle forze di Hillary Clinton, mentre solo il 15% si dice repubblicano; o che il 54% sostiene di essere tanto o abbastanza liberal (che in America vuol dire di sinistra più o meno estrema), il 22% si definisce centrista e altrettanto più o meno conservatore; che l’anno scorso il 64% votò per Hilary e il 18% per Trump, al contrario degli israelo-americani: sono dati che rispecchiano le posizioni di una comunità di poveri immigrati, rimaste immutate da un secolo e mezzo. Ne consegue un’opinione sulla presidenza Trump ancora più negativa del voto: il 77% ha un giudizio negativo e solo il 21% positivo. Il fatto è che questa disapprovazione si estende anche al modo in cui Trump tratta le relazioni con l’Iran, almeno in parte avvicinandosi alle posizioni israeliane (26% favorevoli e il 68% contrari) e anche quelle con Israele (40% favorevoli e il 54% contrari). Fra le ragioni che il sondaggio rivela di questo atteggiamento vi è il fatto che la metà degli ebrei americani non sono mai stati in Israele e un altro quarto solo una volta e che dunque le loro opinioni sono fortemente mediate da una stampa prevalentemente ostile; e anche il fatto che solo il 9% si definisce ortodosso, il 16 % “conservative”, il 31% reform e ber il 39% “solo ebreo”, il che probabilmente significa privo di legami comunitari; ma che il sondaggio rivela anche una notevole insofferenza per il predominio del rabbinato ortodosso in Israele: il 56% ritiene che questo fatto indebolisca i legami con Israele, il 76% ritiene che tutte le correnti religiose ebraiche dovrebbe essere ugualmente riconosciute (anche se in Israele reform e conservative sono pochissimi) e il 68% vorrebbe che fossero riconosciute tutte le conversioni. Insomma, il distacco c’è e i dati mostrano che è crescente. Per Israele, che ha sempre contato sull’appoggio dell’ebraismo americano e sulla sua capacità di influenzare la politica estera americana, è un pericolo grave. Se oggi alla Casa Bianca c’è un presidente amico di Israele, questo accade nonostante il voto ebraico, come quando, fino all’anno scorso, governava un nemico come Obama, costui aveva l’appoggio dell’elettorato ebraico. E’ un paradosso su cui occorrerà a Israele non solo meditare, ma cercare di agire urgentemente.
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