Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 30/10/2017, a pag.4, con il titolo
" L'allarme di El Baradei 'mai stato così vicino lo scontro nucleare, sì al dialogo con Kim' " l'intervista di Francesca Caferri a El Baradei.
Le domande di Francesca Caferri sono tutte bene impostate ( tranne l'ultima, uno fuori dal giro come El Baradei non aspetterebbe altro). Il problema non sono quindi le domande, ma chi risponde. Ci piacerebbe sapere chi ha suggerito il suo nome. El Baradei cita, fra le molte fesserie che propina, il nome dell'ex presidente Usa Jimmy Carter, come la persona adatta a trattare con il dittatore della Corea del Nord, questo dopo aver detto "è il momento che la gente faccia pressione sui governi occidentali" poi continua "Non possono esserci Paesi più uguali di altri" dal che si deduce che l'atomica non fa differenza se l'hanno gli Usa o la Corea del Nord. E ancora "Io credo nel dialogo: anche con i dittatori."
Se l'Occidente si affida a uno come El Baradei la partita è già persa.
Francesca Caferri El Baradei
I casi al mondo in cui il nome di una persona viene indissolubilmente legato alla causa che rappresenta non sono molti. E con il passare del tempo sembrano diminuire sempre più. Esistono tuttavia alcune eccezioni: Mohammed El Baradei è una di queste. Premio Nobel per la pace nel 2005, l'egiziano che ha diretto l'Agenzia internazionale per l'Energia atomica (Aiea) fra il 1997 e il 2009 è il volto della lotta contro la proliferazione nucleare negli anni caldissimi post 11 settembre 2001: fu uno dei pochi a opporsi strenuamente all'Amministrazione Bush quando sosteneva di avere le prove della presenza di armi nucleari in Iraq per giustificare l'invasione del 2003, e di nuovo nel 2007 quando accusò Teheran di aver violato i termini dell'accordo sul contenimento del suo programma nucleare. In una conferenza dominata dal fantasma dell'atomica coreana, la sua presenza a Roma, da Nobel e da esperto della materia, è doppiamente significativa.
Dottor El Baradei, perché ha accettato l'invito del Papa?
«Perché credo sia un'iniziativa importante e perché sono un grande sostenitore di papa Francesco. È il migliore politico che ci sia oggi, quello che dice sempre ciò che la gente vorrebbe sentire. Quando, di fronte ai muri contro i migranti che si alzavano in Europa, ha chiesto a ogni parroco di accogliere una famiglia è stato fantastico».
E ora il nucleare: cosa c'entra con il Vaticano?
«Il Vaticano si occupa di pace. E pace non è solo una parola: ma sviluppo, solidarietà sociale, eguaglianza. E dire basta allo sviluppo di armi terribili. La tempistica di questa conferenza è perfetta: perché questo trattato era stato inizialmente firmato negli anni '70 ma solo qualche mese fa è stato adottato dall'Onu. Nel frattempo però stiamo riscrivendo la Storia: trent'anni fa abbiamo detto no a queste armi, ma ora siamo in una situazione drammatica, vicini come non mai al loro uso. Oggi un errore, una valutazione sbagliata o un fraintendimento, possono portare allo scontro nucleare fra Corea del Nord e Stati Uniti nel giro di 99 pochi minuti».
Qual è lo scopo pratico dell'incontro?
«Il primo è senza dubbio rendere le persone coscienti del rischio che viviamo. Molti pensano che sia una questione sofisticata e lontana: credetemi, non è così. Quello nucleare è un rischio vero. Per questo è il momento che la gente faccia pressione sui governi occidentali: dobbiamo far capire che non si può andare avanti così. Non possono esserci Paesi più uguali di altri, qualcuno con l'atomica, qualcuno protetto dall'ombrello atomico di nazioni alleate e altri che non devono averla. Vogliamo l'abolizione totale della madre di tutte le armi di distruzione di massa: e il sostegno dell'opinione pubblica in questa battaglia è fondamentale».
Nella crisi fra Corea del Nord e Usa sembrano esserci echi dell'escalation che nel marzo 2003 condusse all'invasione dell'Iraq: retorica bellica crescente sullo sfondo di un'opinione pubblica contraria a ogni attacco, per citare il più ovvio...
«Anche io ho la chiara impressione che stiamo vivendo un'atmosfera simile a quella di quei giorni. Non soltanto quando parliamo di Corea del Nord. Penso all'Iran e all'Aiea che ha detto che stava rispettando i termini dell'accordo sul nucleare: ma Trump ha comunque fatto un passo indietro. Io credo nel dialogo: anche con i dittatori. Perché se un dittatore percepisce che intorno a lui si lavora per un cambio di regime farà di tutto per salvarsi. Anche mosse disperate».
Ma come si parla con un dittatore come Kim Jong-un?
«Questa è una domanda ancora tutta aperta. Ma provo a rovesciargliela: Gheddafi e Saddam erano dittatori orribili. Ma siamo certi che i loro Paesi stiano meglio oggi? E difficile parlare con gente simile ma dovremmo trovare un modo intelligente per farlo. Se agiamo solo in base al risentimento è peggio. Se ci limitiamo a sanzioni economiche a subire i danni maggiori sarà la gente comune, mentre il regime in questione si arricchirà. L'Iraq questo lo ha dimostrato in modo chiarissimo. Una strada perfetta non c'è ma dobbiamo cercare quella migliore possibile».
Lei andrebbe in Corea del Nord a negoziare?
«Certo che andrei. Però prima dovrebbero invitarmi. Ma non ci sono solo io: Jimmy Carter ha detto che è pronto ad andare e sono certo che farebbe un ottimo lavoro. L'ex segretario di Stato Madeleine Albright andò e ottenne buoni risultati per conto dell'allora presidente Bill Clinton. Demonizzare il nemico non serve a nulla dobbiamo trovare il modo di convivere e poi magari, gradualmente, individuare anche valori che condivisi. Ma la prima cosa è evitare di ucciderci l'uno con l'altro: dunque basta con la proliferazione nucleare».
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