Riprendiamo dall' OSSERVATORE ROMANO di oggi, 29/10/2017, a pag. 5,con il titolo "Negazionismo di sinistra" la recensione di Giovanni Cerro.
La copertina (Asterios ed.)
Il negazionismo di sinistra non ha mai destato un'attenzione sistematica da parte della storiografia in quanto è stato in genere considerato un fenomeno minoritario, di fatto circoscrivibile all'Italia e alla Francia nel periodo compreso tra gli anni Sessanta e Ottanta e legato ad alcune frange radicali dotate di scarsa influenza sul dibattito politico. Il denso saggio Negazionismo a sinistra. Paradigmi dell'uso e dell'abuso dell'ideologia (Trieste, Asterios, 2017, pagine 174, euro 18) che ora Francesco Germinario, noto per le sue ricerche sulle fonti dell'antisemitismo europeo e sulla cultura politica dell'estrema destra, dedica al tema costituisce una preziosa eccezione in questo panorama, segnalandosi per acutezza interpretativa e lucidità di analisi. L'intento di Germinarlo consiste nell'indagare il fenomeno nella sua specificità, senza tentare di ricondurlo all'ampia galassia del negazionismo di destra. In comune i due negazionismi hanno senza dubbio l'obiettivo polemico, costituito dalla politica antifascista, a cui si imputava la responsabilità di aver creato ad arte il "mito di Auschwitz" e il "mito delle camere a gas". Tuttavia, i negazionisti di sinistra non miravano tanto a riabilitare il nazismo e a darne un'immagine positiva, ma tendevano a leggere l'accanimento contro gli ebrei utilizzando in modo superficiale categorie tradizionali del pensiero marxista.
Lo sterminio, notevolmente ridimensionato nella sua portata quando non rifiutato tout court, era così interpretato come il frutto delle circostanze della guerra, delle condizioni oggettive di vita nei campi o come il riflesso della lotta politica tra stalinisti e trozkisti. In tal senso, un punto di riferimento era rappresentato dalle opere di Paul Rassinier, un ex comunista di tendenze anarchiche che aveva partecipato alla resistenza francese ed era stato deportato per motivi politici a Buchenwald e Dora, secondo il quale le responsabilità naziste andavano attenuate (non si avevano prove certe dell'esistenza di un piano di sterminio) e le testimonianze dei sopravvissuti non erano sempre attendibili, dal momento che non si era mai dimostrato un utilizzo delle camere a gas come strumento di morte. I campi, per Rassinier, erano luoghi di internamento nei quali si erano riproposte le stesse dinamiche sociali e politiche del mondo esterno: l'elevata mortalità sarebbe stata il risultato delle violenze e delle torture perpetrate dai deportati comunisti sui loro avversari. A parte Rassinier, più in generale il vero nemico dei negazionisti di sinistra era rappresentato dal capitalismo e dai suoi "alleati", rei di voler affossare il proletariato servendosi di tutti gli strumenti teorici e pratici a disposizione.
Come mostra bene Germinario, alcune di queste "spiegazioni" si basavano su un altro falso storico (come del resto era accaduto con i Protocolli dei savi Anziani di Sion), un articolo pubblicato nel 1960 sulla rivista «Programme communiste» dal titolo Auschwitz ou le grand alibi. Lo scritto era stato erroneamente attribuito (o più probabilmente attribuito in modo voluto, per dare legittimità alle affermazioni in esso espresse) a uno dei padri del comunismo italiano, Amadeo Bordiga, ma in realtà il suo autore era Jean Pierre Axelrad, un fisico austriaco, emigrato nel 1938 a causa delle sue origini ebraiche e vicino alle posizioni bordighiste. Nello scritto Axelrad proponeva una fantasiosa ricostruzione dell’origine e dello sviluppo dell'antisemitismo europeo nel corso del Novecento. La sua argomentazione — se così la si vuole definire, anche se si tratta della giustapposizione di dichiarazioni apodittiche — si basava su due presupposti. Da una parte, in età contemporanea gli ebrei erano arrivati a costituire una parte significativa delle classi medie, collocandosi prevalentemente nella piccola e nella media borghesia; dall'altra, l'antisemitismo era l'ideologia di quei settori della piccola borghesia che intendevano difendersi dagli effetti della crisi economica e sociale che aveva colpito la Germania tra gli anni Venti e Trenta e sfuggire così all'imminente «proletarizzazione». La piccola borghesia, sosteneva Axelrad, aveva «gettato gli ebrei ai lupi per alleggerire la propria slitta e così salvarsi», facendo indirettamente gli interessi del capitalismo.
Secondo questa lettura, l'antisemitismo corrispondeva a un'illusione ideologica del ceto medio, che aveva creduto di poter sopravvivere all'estinzione, ma in realtà era destinato a essere sconfitto definitivamente dalla Storia, per mano di quel processo irreversibile rappresentato dalla concentrazione della proprietà e del capitale. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale la piccola borghesia era così progressivamente uscita di scena nella lotta contro gli ebrei a favore del capitalismo, che aveva assunto un ruolo sempre più dominante: gli ebrei «furono ritirati dalla circolazione, raggruppati e concentrati» al fine di sfruttarne la forza-lavoro fino allo sfinimento fisico e psichico. Axelrad comunque non nascondeva che in alcuni casi vi fosse stato un «assassinio puro e semplice». Dal momento, però, che i deportati «non morivano abbastanza in fretta», si decise di massacrare quanti non erano più in grado di lavorare e quindi risultavano "inutili" per il sistema produttivo. Nel dopoguerra, il capitalismo aveva saputo sfruttare nuovamente lo sterminio a proprio vantaggio, strumentalizzando la violenza nazista per far apprezzare al proletariato «la vera democrazia, il vero progresso, il benessere» di cui finalmente poteva godere e al tempo stesso per distoglierlo dai veri «orrori», quelli cioè della «vita capitalistica». L'articolo, ristampato e discusso negli ambienti del negazionismo fino ad anni recenti, costituisce un esempio di come sia possibile combinare propaganda politica e spirito rivoluzionario e apre il campo a una riflessione approfondita sul ruolo assunto dalle ideologie nel corso del Novecento.
L'obiettivo di Axelrad era infatti piegare la realtà storica ai modelli semplificati delle proprie posizioni ideologiche, proiettando sul passato la propria scala gerarchica di (dis)valori. Ciò che non si adeguava a modelli predeterminati e idealizzati e a una visione complessiva della storia era forzatamente costretto a rientrarvi o, peggio, intenzionalmente escluso dalla ricostruzione. Vi era quindi un'assenza completa di problematizzazione, dal momento che le risposte precedevano sempre le domande, anzi le indirizzavano e le guidavano. Contro questo modo di procedere, torna allora alla mente la nota affermazione di Norberto Bobbio, richiamata dallo stesso Germinario nel suo libro: «La storia dà lezioni solo a chi riesce a interrogarla, spregiudicatamente, a scandagliarla, con la paziente analisi dei fatti».
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