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La Repubblica Rassegna Stampa
29.10.2017 Il libro ritrovato di Isaac Bashevis Singer
Recensione di Susanna Nirenstein

Testata: La Repubblica
Data: 29 ottobre 2017
Pagina: 21
Autore: Susanna Nirenstein
Titolo: «Il Singer ritrovato»
Riprendiamo da REPUBBLICA - ROBINSON di oggi, 29/10/2017, a pag.21, con il titolo "Il Singer ritrovato" la recensione di Susanna Nirenstein.

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Susanna Nirenstein

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Isaac Bashevis Singer

Dall’archivio Singer custodito presso lo Harry Ransom Humanities Center dell'Università del Texas è emerso un romanzo inedito del premio Nobel apparso solo a puntate come Yarme un Keile, ogni giovedì e venerdì, tra il 9 dicembre 1976 e il 7 ottobre 1977 sul quotidiano yiddish di New York Forverts, un libro che Isaac Bashevis non aveva voluto dare alle stampe nonostante nel 1979 ci fossero già gli accordi per la pubblicazione. Il perché è ancora materia di ipotesi. In base alle pagine autografe e al primo dattiloscritto di una traduzione inglese a opera del nipote di Isaac Bashevis, Joseph, ancora piena di spazi bianchi — in genere frasi in ebraico ma anche in russo — Adelphi e l'appassionata curatrice Elisabetta Zevi sono riusciti a ottenerne i diritti per primi (se si eccettua un'edizione in ebraico del 2011), tradurlo e a mandarlo ora in libreria.

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La copertina (Adelphi ed.)

Operazione coraggiosa, visto che Singer aveva una cura maniacale delle traduzioni in inglese (le considerava "un secondo originale") tanto da curarle insieme alla schiera di traduttori che collezionò (ben quarantotto, quasi tutti donne e spesso amanti). Qui quindi, nel fantastico Keyla la Rossa, non solo non sono state effettuate le miriadi di tagli e addolcimenti che Singer preferiva per un pubblico non yiddish (ne La famiglia Moskat soppresse più di cento pagine), ma il genere stesso è diverso da qualsiasi altro scritto abbia prodotto, perché la trama si svolge tra la malavita ebraica di Varsavia. No, il palcoscenico l'abbiamo visto altre volte, è la celebre via Krochmalna, "la mia miniera d'oro" la chiamava, dove visse al n.10 con la famiglia dal 1908 al 1917 — era nato nel 1904 — uno spaccato febbricitante della vita ebraica osservata dal balcone del padre rabbino chassid e della madre devota ma razionalista severa, un turbine di mistici, socialisti, artisti, sionisti, carrettieri, sarti, intellettuali, acquaioli, ricettatori, macellai kosher, ruffiani, ladri, assassini, streghe e chi più ne ha più ne metta: il tesoro per le sue future storie.

Keyla la Rossa però pesca molto più nel torbido: se la protagonista è una bellissima prostituta di ventinove anni dalla chioma fiammeggiante, il primo attore è suo marito trentaduenne Yarme, un ladro, un protettore con quattro anni di galera alle spalle, e il comprimario è un tale Max lo Storpio, ex amante di Yarme in carcere (cose inaudite!), seduttore e violentatore seriale dagli incubi frequenti e sette passaporti, plurisposato, feroce organizzatore della tratta delle bianche, un traffico che è davvero esistito (il nome dell'organizzazione criminale ebraica era Zwi Migdal, raccoglieva giovani donne bisognose dagli shtetl più poveri promettendo matrimoni e lavori onesti, per poi consegnarle ai bordelli di Buenos Aires e Rio: una storia vecchia come il mondo, un orrendo commercio sconfitto nel 1929 per merito di una delle malcapitate, la coraggiosa Raquel Liberman, che denunciò i gangster). Intorno, pii ebrei si affaccendano per sbarcare il lunario, e persino Keyla crede fervidamente, mentre Yarme e Max da ragazzi hanno studiato a memoria passi della Ghemarà che non ricordano più. Come sempre in Singer, l'abbandono della tradizione, della Torah, della legge, il sesso, il desiderio sono tanto colorati e guizzanti, vivi, quanto forieri di catastrofi. Se Yarme acconsente ai progetti delinquenziali di Max per un rapporto a tre e un business che li porti ad aprire un bordello in Argentina diretto da Keyla, sua moglie si ribella, lei non vuole ricadere nella melma e mentre, disperata, va dal rabbino (identico al padre di Singer), ne incontra il figlio Bunem, una specie di angelo biondo con palandrana e cernecchi che però coltiva letture filosofiche, narrative, scientifiche travolto dagli interrogativi sulla fede (come faceva Singer), frequenta un atelier di pittori e rivoluzionari (molto simile a quello a cui era legato il fratello dell'autore Israel Joshua) e ha una fidanzata anarchica (che assomiglia assai alla figlia del medico Landau nella Famiglia Karnowski) ricercata dalla polizia. Keyla lo seduce. Fuggono. Li attende New York, un groviglio in cui Bunem si sente smarrito (e perso si senti Isaac Bashevis per tutti primi anni del suo approdo in America nel 1935), come un vecchio, rivolto solo al passato e esposto a tutto. Lontano dalla fede e dal mondo perduto c'è un esilio perenne. Anche se manca l'ultimo capitolo e la fine è aperta. Il romanzo ha a suo modo dei precedenti nella letteratura yiddish moderna: Isaak Babel' di malavita ebraica ha scritto in russo all'inizio degli anni Venti e anche Sholem Alcykhem aveva toccato certi aspetti dissoluti della vita negli shtetl, così come Sholem Asch.

Era un rifiuto del sentimentalismo con cui si erano voluti presentare i quartieri e i villaggi degli ebrei. Era una rivendicazione di normalità, in cui la delinquenza, la sessualità, la violenza dovevano avere un posto come tra i gentili. Tratto di modernità interrotto dalla Shoah, perché da quel momento gli orfani dell'universo yiddish vollero comprensibilmente ritrovare una visione nostalgica, elegiaca della loro Europa dell'Est annientata. L'unico male raccontabile divenne il genocidio. E Singer? Singer non cedette mai a questa tendenza, non volle mai creare dei monumenti cimiteriali. I suoi shtetl o i suoi ebrei americani erano magari malati di dolore, ma vivi, strabordanti di tentazioni, questo era l'importante. E davvero leggere Keyla la Rossa è come guardare una danza pazza e sempre nuova. Eppure Singer non pubblica in inglese il romanzo. Addirittura non ne scrive l'ultima puntata. Fu lui a bloccarlo? Gli editori? Fu forse il Nobel ricevuto nel 1978 a fermare l'operazione: già le polemiche dei guardiani americani dell'yiddish durante l'uscita delle puntate (troppo sporco, troppe perversioni per quel mondo inghiottito dalla Shoah di cui bisognava solo avere nostalgia) erano state noiose, ora che era stato immortalato nell'empireo di Stoccolma non voleva sciupare l'enorme fama che l'aspettava e, per una volta, cedette.

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