Riprendiamo dall' ESPRESSO di oggi, 29/10/2017 a pag.10, con il titolo "Kibbutz Berlino" l'analisi di Wlodek Goldkorn.
Per un'analisi dell'antisemitismo oggi in Germania, rimandiamo all'articolo di Roberto Giardina, pubblicato da IC: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=209&sez=120&id=68097
Wlodek Goldkorn
Il Memoriale della Shoah a Berlino, di Daniel Libeskind
Berlino, Kreuzberg, quartiere fino al 1989 a ridosso del Muro, nelle strade insegne di negozi con nomi islamici; in un salotto di un elegante appartamento, tra buoni vini e ottimi cibi forniti da un ristorante di proprietà di una greca fuggita dalla parte della Cipro occupata dai turchi, c'è una dozzina di israeliani. Non sono ebrei della Diaspora, russi e ucraini, approdati nella capitale tedesca nel quadro del progetto della ricostruzione di una Germania multiculturale per dar testimonianza della solidità della democrazia nel Paese che fu di Hitler. La dozzina degli astanti sono invece persone nate in Israele; cresciute fra Tel Aviv, Haifa, Gerusalemme e kibbutz vari. La proprietaria della casa, la scrittrice Lizzie Doron, figlia di una donna scampata ad Auschwitz (e che la memoria e la follia della madre ha trasformato in letteratura) dice: «Quelli che venivano da qui, in Israele erano considerati "coloro che arrivano dall'Inferno': Eccoci invece tornati all'Inferno». Non nelle fiamme attizzate dai diavoli, ma con piattini di moussaka e bicchieri di Falanghina in mano, c'è un businessman del ramo immobiliare, un avvocato internazionale e il suo compagno di vita artista affermato; c'è un maestro di yoga; un musicista che suonava con Daniel Barenboim (anche lui israeliano a Berlino) e poi un ex attivista politico, una funzionaria della Knesseth in pensione e via elencando. Fa un effetto straniante confrontare le loro comode vite (nessuno qui è povero) con il primo soggetto della conversazione: i passaporti e le ambasciate.
Dunque, gli austriaci sono ora di manica più larga dopo decenni di tirchieria, ai discendenti dei sudditi dell'ex Impero in certi casi ridanno la cittadinanza; i romeni invece no; i polacchi se hai avuto un genitore nato lì, i documenti te rilasciano, ma bisogna insistere; se vuoi diventare maltese devi spendere denaro. Qualcuno confessa: «Io comunque il passaporto tedesco l'ho preso». Ma come? Cittadini di una nazione che doveva porre fine ai duemila anni di erranza dei senzapatria parlano come se fossero ebrei in fuga, da queste parti, negli anni Trenta del secolo scorso? Ecco, ce ne sono oggi, nessuno sa il numero preciso, almeno 20 mila, ma c'è chi dice 30 mila israeliani nella capitale che fu del Führer, di Goering e Himmler e Goebbels e dove vennero concepite Auschwitz e Birkenau, Treblinka e Sobibor. Paradossi della storia? Vedremo. Ma intanto, perché sono qui? E la loro permanenza ha qualcosa da insegnarci sui corsi e ricorsi della storia e sulla libertà di scelta di noi umani? Per tentare di dare una risposta a queste (e altre) domande spostiamoci al Museo ebraico, a due passi dal Reichstag.
Quando la Germania venne riunificata i politici tedeschi sentirono la necessità di assumersi la memoria del popolo assassinato (ci torneremo) e così nel pieno centro della capitale sorse il memoriale alle vittime della Shoah costruito da Peter Eisenmann, una selva di pietre, e il Museo appunto, disegnato da Daniel Libeskind, dalle pareti e pavimenti inclinati in modo da creare una sensazione di instabilità. Ma la cosa che più colpisce è la scala all'entrata. Il visitatore, prima ancora di vedere le sale in cui si narrano gli splendori dell'ebraismo tedesco tra banchieri, poeti, filosofi, uomini e donne dell'Illuminismo, scienziati di fama ed editori di pregio; ecco prima di vedere tutto questo il visitatore sale una ripida scala che finisce non con un'apertura verso gli spazi dell'esposizione, ma con un muro di grezzo cemento armato. E un modo per dire: tutto quello che vedrai sono cose di prima della fine del mondo; dopo c'è solo un muro e anzi, la Germania non è altro che un muro contro cui sbattere, se non si sta attenti. E allora, forse quei 20 o 30 mila israeliani venuti qui non per fuggire dalla miseria dell'Est post-comunista, ma arrivati da un Paese ricco, forte, dotato da una cultura stupenda, sono in realtà persone che hanno deciso che anche il muro di Libeskind andasse demolito.
C'è qualcosa di strano nella memoria degli israeliani. Fania Oz-Salzberger, storica e figlia dello scrittore Amos ha vissuto un anno qui, per via di una borsa di studio. Nel libro che ha prodotto sugli israeliani nella capitale tedesca dice fin dalle prime pagine che Tel Aviv è figlia di Berlino. E cita i padri e le madri della letteratura israeliana che qui, prima dell'avvento del nazismo, ma già sionisti convinti, hanno trascorso anni formativi e fondamentali; dal premio Nobel Shmuel Agnon alla struggente e intelligentissima poetessa Lea Goldberg. Ecco, Berlino è una città anche israeliana. Uno strano intreccio e abbraccio della storia. Tal Alon è giornalista. Ha 42 anni e dirige "Spitz" (apice), «la prima rivista in ebraico a Berlino dopo la Shoah», come ama sottolineare. I suoi nonni giunsero in Palestina negli anni Trenta, dall'Europa centrale. La sua è una storia lunga è complessa, è arrivata a Berlino seguendo suo marito, tedesco cresciuto fin da bambino in Israele. Ma comunque (e la cosa la raccontano un po' tutti gli interlocutori) il paesaggio, tra boschi e odori, di questa parte del Vecchio Continente le è familiare, come se stesse da sempre qui. Forse certe memorie in famiglia appunto, anche visive e di olfatto, passano per osmosi. In ogni caso, di "Spitz" sono usciti venti numeri su carta stampata, e sottolinea, «proprio qui a Berlino è importante la materialità della carta».
Sorride e riflette sulla distanza da Israele che rende alcune cose più comprensibili, o forse più normali: «Non voglio essere tedesca», dice, «preferisco restare ospite, ma qui sto bene. Solo qui ho capito, guardando i miei figli e i loro compagni di scuola, quanto strano fosse che in Israele io non avessi neanche un amico arabo o musulmano». E la memoria? La domanda è insidiosa, e implica l'ipotesi per cui la normalità è solo un'apparenza e anche un po' perversa. E per essere espliciti: il fatto che al centro della capitale ci siano monumenti dedicati alle vittime non finisce paradossalmente per integrare la memoria degli assassinati, nella narrazione (democratica e liberale) dei discendenti degli assassini? Insomma, non è che i tedeschi abusino degli ebrei morti nei Lager, mettendo in mostra la propria cura per la loro memoria e tutto questo per legittimare se stessi? Alon riflette a lungo; poi da donna nata 40 anni dopo la liberazione di Auschwitz e ormai terza generazione in Israele dice pragmaticamente: «Preferisco l'eccesso della memoria alla sottrazione. Perché in quell'eccesso c'è l'assunzione della responsabilità. Ed è per questo che un'israeliana può tranquillamente sentirsi di casa a Berlino, senza essere tedesca».
Scrive, nel suo bel libro Fania Oz-Salzberger: «Qui si riesce a misurare la nostalgia dell'Europa degli israeliani, il suo fascino e la sua forza dell'attrazione». Insomma, Berlino, la nuova Terra promessa, altro che Inferno. Dell'inferno, ricordiamocelo ha parlato Lizzie Doron, la padrona del salotto di Kreuzberg («ci vediamo ogni due mesi») e che per chi frequenta una certa letteratura richiama l'associazione con un altro salotto berlinese, di Rahel Varnhagen, intellettuale ebrea a cavallo tra il Settecento e l'Ottocento, convertita al cristianesimo cui dedicò un libro Hannah Arendt. E allora, che cosa ci fanno gli israeliani a Berlino? La prima risposta è sorprendente: «Molti vengono con l'idea, "ci spetta, dopo quello che i tedeschi hanno fatto a noi"». Poi confessa: «Io sono qui perché, da scrittrice, per tutta la vita ho voluto capire i motivi per cui la gente odia i propri simili». Precisa: «Qui l'odio non ha più luogo, in nessun'altra città e in nessun altro Paese i miei libri hanno avuto tanto successo e sono stati così ben compresi come qui».
Doron, l'abbiamo già detto, ha pubblicato romanzi-memoir dedicati ai ricordi di Auschwitz di sua madre (in Italia con Giuntina). Ora ha scritto un libro sui rapporti coi palestinesi ("Cinecittà", sempre Giuntina), un testo duro e brutale. «In Israele nessuno Io ha voluto pubblicare», si arrabbia, « mi hanno detto: il tuo tema è la Shoah, continua a raccontare i Lager e la memoria. E io rispondo: ma dopo 50 anni di occupazione militare come faccio a non parlarne, come faccio a non riflettere sull'odio, in questa versione della storia?». Ecco, Berlino, racconta Doron, le ha permesso di vivere da persona libera, che può narrare quel che vuole. E anche: «Mia mamma, reduce di Auschwitz diceva: meglio avere due patrie che una sola. Per me Berlino è il luogo dell'anima». Ferma l'eloquio, guarda negli occhi l'interlocutore, cerca le parole giuste: «Il grande pregio dei tedeschi, rispetto ai francesi o polacchi o austriaci, è che qui tutti (forse ad eccezione del pubblico della destra dell’Afd, ma in fondo sono pochi) riflettono sul passato non per assolversi ma per capire l'origine universale dell'odio».
Confessa: «Ho cercato una donna delle pulizie. L'ho chiesto a un'amica tedesca discendente di una famiglia dei nazisti. Lei mi disse che va in giro a pulire le case degli ebrei; è la sua espiazione». E allora? «E allora, in quell'abbraccio tra noi, gli israeliani (e parlo più da israeliana che da ebrea) e i tedeschi, bisogna stare attenti a un ineffabile limite, che non va oltrepassato. Ma comunque qui sto di casa». Di casa sta a Berlino anche Oz Ben-David, un nome è un cognome che rimandano a un Israele dei suoi primi anni, quando ai cittadini in missione all'estero il governo imponeva di assumere nomi e cognomi appunto che fossero espressione dell'idea dell'ebreo nuovo, creato in Terra dei Padri e che ha rotto i legami con il passato diasporico; o forse a certa e letteratura, in cui le spie del Mossad si presentavano tosi. Oz Ben-David significa Forza Figlio di Davide. Lui ha 37 anni, un passato di destra, truppe scelte dell'esercito, e di colono ad Ariel, città israeliana in mezzo alla Cisgiordania palestinese. A Berlino, assieme a un palestinese, Ialai Dabit, ha aperto un piccolo ristorante che serve l'hummus (purea di ceci) più buono dell'universo mondo. Cibo come progetto politico (e lui conferma), ma poi c'è la location.
Il ristorante, Kanaan, si trova a Prenzlauerberg, un quartiere dell'Est. L'arredamento e anche la baracca (perché sta in una baracca) sono sempre quelli dei tempi del comunismo, precisa. Attorno un ambiente che richiama gli anni Cinquanta. Una passerella sopra la ferrovia ed edifici dall'intonaco scrostato, con nei mattoni segni delle pallottole dei soldati dell'Armata rossa, in marcia verso il bunker del Führer (nel frattempo suicida). Dice Dan Diner, storico tedesco e israeliano, fine intellettuale spesso interpellato dall'Espresso: «Gli israeliani che vengono qui sono, per usare un termine di Walter Benjamin, dei flâneur nel tempo». Spiega: «In questa capitale, e solo in questa, a differenza di tutte le altre in Europa, convergono la semantica e i simboli dei passati diversi. A causa del Muro, qui il tempo restò congelato». Continua: «In Israele il passato è un racconto astratto, narrazione dei genitori, lettura dei libri, qualche foto o filmato. Ma il Paese è nuovo. Qui a Berlino invece la memoria si traduce in oggetti e edifici, che appunto per decenni sono rimasti intatti, perché qui era l'epicentro dello scontro Est-Ovest e tutto doveva restare come era». E anche: «Gli israeliani che vengono qui, non mettono radici. Sono dei perfetti viandanti; avanguardie della condizione post-moderna di tutti gli esseri umani».
Tradotto in parole semplici: la post-modernità ha prodotto la figura del nomade, che a differenza della modernità non sceglie una sola e solida identità (ci riflettano gli oppositori dello ius soli); e per uno strano e mostruoso caso della storia, quella condizione arriva alla sua massima e più chiara definizione nella situazione dei 20 o 30 mila israeliani a Berlino. Il resto è solo una serie di commenti: Shai Ordan, l'avvocato internazionale, poco più che quarantenne, sesta generazione di persone nate in Terra d'Israele, con antenati dalla parte materna da 400 anni ad Amburgo, dice che era arrivato qui a seguito del suo compagno di vita («aveva una borsa di studio di un anno, pensavo di stargli accanto per sei mesi») e invece è rimasto. Apprezza due cose: «la prima, da avvocato mediatore di famiglie composte da persone di varie nazionalità, ho capito che il futuro dell'umanità sta non in una specie di melting pot o di amalgama (come si pretende in Israele) ma nel rispetto anche conflittuale delle diversità». La Terra promessa e i tempi del Messia sono solo espressioni utopiche. E la seconda? «Riguarda la cultura gay, ma non solo. In Israele, considerato un specie di paradiso degli omosessuali, non siamo, a causa dell'occupazione, della minaccia esistenziale vera e del razzismo altrettanto vero, in grado di riflettere sulle cose profonde. Ci fermiamo in superficie. Da noi, il gay è ancora un giovane bello e atletico.
Qui a Berlino, non più. Qui i gay sono come tutti gli altri». Efrat Alony, 42enne cantante jazz la vede forse un po' diversamente degli altri. Intanto, lei nata a Haifa, famiglia proveniente dall'Iraq, a Berlino vive da una ventina di anni. E con questo potremmo concludere, se non richiamando (ancora una volta) Oz Salzberger, che a sua volta cita Nathan Alterman, un poeta amatissimo da suo padre e uno dei creatori del mito dell'uomo nuovo sionista. Alterman, scrive Fania Oz-Salzberger, considerava le città commerciali come «sorde e dolorose». Le persone nate e cresciute nella città ideale di Alterman, in una città sorda e dolorosa come Berlino, hanno invece trovato voce e conforto. All'uscita dal museo di Libeskind, c'è un video sul processo ai boia di Auschwitz, a Francoforte a metà anni Sessanta. Hannah Arendt, elegantissima, seduta in poltrona spiega: «Tutto quello non sarebbe dovuto succedere». Rimpianto di un'illuminista e viatico per la generazione dei futuri viandanti nel tempo.
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