Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 26/10/2017, a pag. 33, con il titolo 'Il carcere ti succhia l’anima ora non riesco più a scrivere', l'intervista di Marco Ansaldo alla scrittrice turca dissidente Asli Erdogan.
Marco Ansaldo
La turchia di Ataturk e quella di Erdogan
Asli Erdogan dà appuntamento alla Pasticceria Gezi, proprio di fronte al Gezi Park, simbolo della rivolta nel 2013 a Istanbul e in tutta la Turchia. Perché vederci qui? «Perché è un luogo familiare, un bellissimo ritrovo. Ci si incontra sempre tanta gente e io ci sono affezionata ».
Era a Gezi Park durante quei giorni difficili? «Certo, nel mezzo della rivolta. Ricordo ancora quando mi sono trovata da sola, in strada, con un blindato davanti. Guardi le mie braccia: qui, qui e ancora qui. Sono piene di bruciature, tuttora, per gli agenti chimici lanciati dalla polizia. Lei non immagina quanto ho pianto in quei giorni per i gas lacrimogeni. E lo vede questo palazzo sotto cui ci troviamo? ». È il Centro culturale Ataturk: qui venne appeso un colossale ritratto del fondatore della Turchia moderna, e la folla a Piazza Taksim e al Gezi Park guardava a lui mentre resisteva alle cariche. Così come faceva l’uomo che protestava in piedi in silenzio per ore, imitato in tutte le piazze del Paese. Per non parlare della gente che si raccoglieva seduta, per lo stesso motivo, con un libro in mano a leggere. «Già. E adesso questo palazzo verrà tirato giù. Il volto di Mustafa Kemal, Ataturk, era un simbolo per tutti quelli che in quei giorni andavano a manifestare. Qui ora faranno un grande centro commerciale e costruiranno una moschea». Asli Erdogan oggi è una donna fiera e sensibile, che non ha perso fiducia nel suo prossimo. Anche se i quattro mesi e mezzo passati in carcere nel 2016 - con l’accusa di sostegno al terrorismo solo per aver fatto parte del consiglio di amministrazione di un quotidiano filocurdo (il processo è ancora in corso) - fino alla liberazione arrivata a sorpresa alla vigilia di Capodanno, l’hanno duramente provata nel corpo e nello spirito. Da quando il passaporto le è stato restituito ha però cominciato a viaggiare e a ritirare i numerosi premi assegnati in absentia: prima in Francia dove è stata ricevuta dal Presidente Emmanuel Macron, poi in Germania dove ha preso l’Erich Maria Remarque e partecipato alla Fiera del libro di Francoforte. Ora in Italia, dove spera di trovare conforto e soprattutto la forza necessaria per tornare a scrivere.
Asli Erdogan
Lei arriva qui per la prima volta come scrittrice. Come in ogni parte del mondo, c’è stata molta apprensione sul suo caso. «Lo so. Dall’Italia ha ricevuto solo buone sensazioni, ma non posso dire di conoscerla. Questa sera al Festival Adriatico Mediterraneo di Ancona parlerò e riceverò un premio di cui sono molto orgogliosa. Ma non sono mai stata a Firenze, e ci andrò finalmente domani. Non ho mai visitato Roma, e aspetto un giorno di vedere Napoli, la Sicilia e tutto il Sud. Ancora ricordo quando, a vent’anni, innamorata di Dante Alighieri, leggevo l’Inferno della Divina Commedia mettendo davanti a me tre libri: la versione in turco, la traduzione in inglese, e l’originale in italiano. La vostra lingua per me ha qualcosa di magico ».
E la Turchia di oggi? «Il pensiero unico mi spaventa. A volte la situazione attuale mi ricorda la Germania degli anni Trenta. E non è necessario che mettano dei campi di concentramento per fare un paragone con il passato».
In quei giorni difficili di Gezi Park, Orhan Pamuk scrisse un articolo sul parco, ricordando come da bambino la sua famiglia si organizzò per impedire il taglio di un solo albero. Il premio Nobel turco l’ha sempre difesa quando lei si trovava in carcere. «Sì, so che Orhan era molto preoccupato per me. Lui oggi è veramente il nostro autore più grande. E così Elif Shafak. Ma non tutti gli scrittori mi sono stati a fianco. Una volta mi sono trovata a un evento con un collega, e quello si è girato dall’altra parte. Mi sono chiesta che cosa avessi mai fatto. Poi l’ho scoperto: avevo firmato un appello a favore di alcuni intellettuali, ma lui era evidentemente stava su un altro fronte…».
Che rapporti ha avuto con un altro grande, scomparso pochi anni fa, Yashar Kemal, turco e curdo? «Un uomo delizioso. Una volta, con il suo fare paterno, venne da me e disse: “Io lo so che sei povera. Ricordati: non te ne vergognare mai”. Chissà da che cosa l’aveva capito».
Ma lei oggi è tradotta in tutto il mondo, i suoi libri sono pubblicati in 21 Paesi… «Guardi, non lo so. Eppure è così. Le faccio un esempio, proprio sul suo Paese. Non è strano che in Italia sia uscito solo un mio libro, peraltro uno dei primi, Il mandarino meraviglioso, pubblicato diversi anni fa meritoriamente dall’editore Keller? Adesso ho visto che Garzanti ha fatto uscire una mia raccolta di testi, Neppure il silenzio è più tuo. Mi chiedo perché non sia stato pubblicato altro. Eppure ho scritto otto romanzi. C’è questo altro libro, L’edificio di pietra, il mio ultimo, a cui tengo molto, costruito con una trama strana e asimmetrica, e che altrove, in Germania per esempio, ha interessato molto. Comunque, a me basta che i miei libri arrivino e piacciano ai lettori ».
Riesce a scrivere dopo il carcere? «No».
Perché? «Non è facile, sa? La privazione della libertà ti succhia l’anima, ti prosciuga. Per me l’arresto è stato uno shock. Come scrittore mi stanno uccidendo. La notte non dormo: aspetto ancora che arrivi la polizia. Di giorno fatico a organizzarmi. Devo pensare a rimanere viva. Non so nemmeno se l’anno prossimo lo sarò. Io prendo la letteratura molto seriamente, e per me l’atto di scrivere necessita di concentrazione. In cella non avevo un tavolo, mi mancavano le cose, casa mia. Per scrivere una frase che meriti di essere letta, a volte c’è bisogno di una vita. Sì, quando ero in prigione ho buttato giù qualche appunto. Ma stavo in mezzo a 24 donne. E per fortuna che c’erano. Non so come avrei resistito. Il conforto di ricevere lettere, poi, anche quello è stato importante».
Dall’estero ha sentito il sostegno della comunità intellettuale? «Sicuramente. È stato decisivo. E i premi che via via mi venivano assegnati erano per me fonte di grande consolazione. Ora aspetto di ritirarli tutti, se sarà possibile».
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