Riprendiamo dal FOGLIO del 25/10/2017, a pag. IV, la recensione a "L'uomo che voleva uccidere Hitler", di Alessandro Litta Modignani.
Alessandro Litta Modignani
La copertina (EDB ed.)
Fino alla metà degli anni Sessanta, la maggior parte dei tedeschi rifiutò categoricamente di intitolare una scuola o una strada a Claus von Stauffenberg. La generazione della guerra cercava ancora di discolpare, quasi di giustificare, agli occhi dei giovani, i conformisti e gli opportunisti, il cui comportamento aveva reso possibile molto di quello a cui Stauffenberg si era opposto. Con il fallito attentato del 20 luglio 1944, egli invece si era dimostrato consapevole dell’errore di avere condiviso – anche solo in parte – i crimini dei nazisti, e aveva agito di conseguenza. Stauffenberg non era affatto un progressista, e forse neanche un democratico. Era un ufficiale della Wehrmacht, tipicamente di origine aristocratica, nel solco della grande tradizione prussiana e guglielmina. Ai suoi occhi, la Repubblica di Weimar non fu altro che un periodo di debolezza e disordine. Guardava con distacco al nazismo. Le offensive in Polonia e in Francia gli parvero un riscatto dovuto, rispetto all’iniquo Trattato di Versailles. Solo più tardi, di fronte agli orrori, agli eccidi, ai crimini del nazismo e alle follie di Hitler, l’ufficiale si rese conto di come il suo “dovere” fosse ben altro.
Steinbach si sofferma, nel ricostruire la formazione di Stauffenbergh, sul ruolo essenziale svolto dal poeta e letterato tedesco Stefan George, che frequentò a lungo, e dalle letture di Nietzsche e Hölderlin. Proprio la poesia di George L’Anticristo, che declamava spesso a memoria, appare oggi il suo manifesto ideale e il suo piano d’azione: “I saggi, gli stolti – indiavolato si rotola il popolo / sradica gli alberi, calpesta le sementi. (…) Il Principe dei Parassiti espande il suo reich (…) Voi esultate, incantati dall’inganno diabolico”. Un putsch militare però è impraticabile. E’ necessario eliminare il tiranno nella Tana del lupo, a Rastenburg, poi volare a Berlino e da lì diramare ordini tassativi, confidando nella determinazione dei congiurati. Entrambe le fasi vedono protagonista lo stesso Stauffenberg. E’ il capo di stato maggiore della riserva, l’unico che può avvicinare Hitler e poi prendere in mano la situazione nella capitale. Le sue grandi doti organizzative lo guidano, la coscienza gli impone di agire. L’azzardo è irreversibile, ma è pronto al sacrificio. La fortuna non premia i congiurati. L’ufficiale riesce a innescare una sola delle due cariche esplosive; la riunione si tiene non nel bunker ma in una baita in legno; la borsa con l’esplosivo viene casualmente spostata; quattro uomini muoiono nell’attentato, ma Hitler è solo leggermente ferito; a Berlino, l’operazione Valchiria parte con un leggero ritardo, sufficiente però a far sapere che il Führer è vivo. L’estremo tentativo del popolo tedesco di scindere il proprio destino da quello, ormai segnato, del regime nazista, è fallito. Stauffenberg non salverà l’onore della Germania, ma solo il proprio, insieme a quello di migliaia di oppositori che saranno fucilati nei mesi successivi. Se l’attentato fosse riuscito, ci ricorda Peter Steinbach, 20 milioni di vite umane sarebbero state risparmiate.
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