Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 24/10/2017, a pag. 1-12, con il titolo "A Kirkuk sulla linea del fronte peshmerga: 'Da qui gli iracheni non passeranno mai' ", il commento di Giordano Stabile; dal FOGLIO, a pag. 1, con il titolo "Calcoli sbagliati", la cronaca di Adriano Sofri.
Ecco gli articoli:
LA STAMPA - Giordano Stabile: "A Kirkuk sulla linea del fronte peshmerga: 'Da qui gli iracheni non passeranno mai' "
Giordano Stabile
La linea dei peshmerga corre lungo un terrapieno che sovrasta il Piccolo Zab. Verso Sud si vede il ponte distrutto, riverso nel letto del fiume. Venerdì scorso i curdi l’hanno fatto saltare in aria prima che i carri armati dell’esercito iracheno e delle milizie sciite lo attraversassero. «Dopodiché mancavano 45 chilometri di autostrada per raggiungere Erbil», spiega il generale Kamal Karkuki.
È un veterano delle battaglie sul campo e in politica, già presidente del parlamento curdo, mandato sul fronte più caldo nella guerra fra il governo centrale di Baghdad e il Kurdistan.
Lo schieramento dei peshmerga è nascosto dietro le trincee. Le postazioni strategiche, quelle che proteggono i lanciamissili anti-tank e pezzi di artiglieria da 122 millimetri, sono tenute segrete. Si vede solo qualche jeep con i pezzi da 105 montati sopra. «Venerdì gli abbiamo dato una bella lezione - continua Karkuki - per ora non ci aspettiamo nuovi attacchi frontali». Negli ultimi tre giorni ci sono stati solo scambi di colpi di mortaio e mitragliatrici, di «assaggio».
«Ci sono tanti iraniani, centinaia e centinaia», conferma il generale, contento per le parole pronunciate domenica dal Segretario di Stato americano Rex Tillerson, arrivato ieri sera a sorpresa a Baghdad, che ha invitato i miliziani di Teheran «a lasciare l’Iraq». Ottanta, prosegue Karkuki, «l’hanno già fatto, ma dentro una bara». La cifra è stata calcolata in base ai rapporti degli informatori nelle zone curde riprese dagli iracheni: «Hanno portato i corpi verso Sud, poi hanno attraversato il confine a Meheran. Se non fossero stati iraniani li avrebbero lasciati qui».
Nella battaglia esercito iracheno e milizie hanno perso «155 uomini, più centinaia di feriti». Non si aspettavano «una reazione così forte, li abbiamo avvertiti, non passate il fiume, non attaccate, hanno mandato avanti un Abrams, ha cominciato a tirare sulle nostre posizioni con il pezzo da 120 millimetri, lo abbiamo distrutto con un missile Milan, poi abbiamo colpito almeno 10 blindati Humvee, la loro colonna si è sgretolata, si sono ritirati dentro Altun Kupri», racconta Karkuki.
Il Piccolo Zab divide Altun Kupri dalla cittadina di Pirde, dove sono assestati i peshmerga. Il fiume è la nuova frontiera provvisoria ma gli iracheni vogliono spingersi più su, almeno fino al check-point di Kuz Tapa, dove una volta finiva la Regione autonoma curda, ad appena venti chilometri da Erbil. «Non passeranno mai. Ascolta, Kirkuk è caduta solo per il tradimento di una parte del partito Puk. Hanno ritirato i loro peshmerga di notte e all’alba gli abitanti si sono risvegliati con le milizie Hashd al-Shaabi per le strade. Se avessimo potuto combattere come abbiamo fatto qui sarebbe ancora nostra».
I «traditori» sono i figli dell’ex leader del Puk Jalal Talabani, morto tre settimane fa, che hanno preso in mano il partito «e si sono accordati con Baghdad e con l’Iran». «Non li perdoneremo mai, pagheranno come pagheranno quelli che stanno compiendo crimini a Kirkuk, le milizie Al-Hussein e Al-Khorasan in particolare, sappiamo di civili uccisi, di case bruciate». Ma anche l’esercito iracheno ha partecipato all’offensiva, con la 22a divisione e la Nona, corazzata. Questo rende i tentativi di riconciliazione molto difficili.
«Siamo per una soluzione politica ma Baghdad deve fare attenzione. I civili a Kirkuk si stanno organizzando. Li attaccheranno, per loro sarà un inferno continuare a occupare la città. Sono pronti ad azioni di guerriglia». Karkuki è convinto che gli iracheni, e gli iraniani, si ritireranno presto dalla provincia di Kirkuk. E da quella Suleyamaya? «Ormai è territorio iraniano», scuote la testa: «Il Puk, una parte del Puk gliel’ha consegnata. Ma abbiamo i nostri patrioti anche lì».
Con la linea del fronte al momento ferma, la politica è tornata in campo. Il primo ministro Nichervan Barzani, cugino del presidente Massoud, ieri ha insistito: «Vogliamo il dialogo». Ma i civili fuggiti da Kirkuk continuano ad aumentare, sono ora 150 mila, e a Erbil nessuno si fida più degli iracheni e neanche delle garanzie americane. Oggi ci sarà una grande manifestazione davanti al consolato. Le voci su nuovi attacchi si moltiplicano. Le milizie sciite, è il timore, stanno puntando al confine con la Turchia, «vogliono passare il Tigri al ponte di Zumar e occupare il posto di frontiera di Khalil Ibrahim». I peshmerga sono schierati in forze, anche perché il premier iracheno Haider al-Abadi sarà domani ad Ankara e la sensazione è che il cerchio continui a stringersi attorno al Kurdistan.
IL FOGLIO - Adriano Sofri: "Attacco ai civili: tocca alla Spagna"
Adriano Sofri
Un boss Hezbollah libanese ha esaltato l’operazione irachenoiraniana di occupazione del Kurdistan come una disfatta degli Stati Uniti e di Israele. Difficile contraddirlo. Fra Israele e curdi c’è una simpatia antica e popolare, che può sorprendere chi immagini più naturale una solidarietà fra curdi e palestinesi, i due popoli proverbialmente senza stato. In tempi vicini il legame fra Israele e Kurdistan di Barzani è stato rafforzato dalla preoccupazione del governo di Netanyahu per l’espansione militare vistosa dell’Iran nella Siria di Assad, che l’ha fatto affacciare sul Mediterraneo di Tartus e saldare territorialmente un’alleanza sciita. Israele, che solitario aveva sostenuto apertamente il referendum curdo, assiste allarmato alla rivalsa di Baghdad e Teheran.
Gli Stati Uniti di Trump hanno segnato un uno-due da ubriachi: l’arringa del presidente contro l’accordo con l’Iran sul nucleare e l’operato terrorista dei Guardiani della Rivoluzione è stata seguita, a un giorno di distanza, dal via libera americano all’invasione del Kurdistan in cui la parte militare principale è stata coperta dalle milizie sciite di obbedienza iraniana Ashd al Shaabi guidate dal comandante dei pasdaran di al Quds, Qasem Soleimani, un famigerato fuorilegge per gli Stati Uniti. L’operazione irachenoiraniana si è impadronita delle aree a maggioranza curda “contese” che da anni, per la guerra all’Isis, erano in mano curda, e spinge per andare oltre i confini di quelle aree, come nella battaglia di artiglieria di Prde, a sud di Erbil.
Domenica il segretario di stato Tillerson da Riad ha proclamato che le milizie Ashd al Shaabi e i Guardiani della Rivoluzione devono “tornarsene a casa”, ora che l’Isis è largamente battuto, e la sicurezza deve appartenere solo alle forze irachene regolari. Il proclama di Tillerson fa pensare al proposito, se non di rimettere il dentifricio nel tubetto, almeno di far rientrare i buoi nella stalla appena dopo aver spalancato il recinto. Oltretutto, le milizie (in larga prevalenza) sciite che furono formate in Iraq per reagire alla disfatta subita dall’Isis, hanno cessato formalmente di essere “paramilitari” per passare al rango di regolari, e anche senza questo fatto compiuto ricorrerebbero facilmente all’espediente (già attuato a Kirkuk) di cambiare casacca. C’è una qualche logica, sia pure sgangherata, nell’atteggiamento americano? Se c’è, è questa: appoggiare il primo ministro iracheno Abadi allo scopo di staccarlo dalla pressione del suo rivale Maliki e in genere dall’influenza iraniana. Tillerson era in Arabia Saudita dove Abadi ha incontrato il re Salman e concordato un “consiglio di coooperazione” fra i due paesi sull’economia e la sicurezza. Abadi ha proseguito poi alla volta di Egitto e Giordania. L’Iraq ha fissato le sue elezioni politiche (che a questo punto coinvolgerebbero, nelle intenzioni, le province curde come le altre ordinarie) per il prossimo maggio.
Gli errori di Barzani
L’idea americana è che tutto stia fermo fino ad allora così da favorire la vittoria elettorale di Abadi e dei suoi eventuali alleati, ridimensionando la fazione più iraniana e riducendo i curdi ai confini precedenti il 2014, come se la guerra all’Isis non fosse avvenuta, e se la presa dell’Iran sul Kurdistan, a cominciare da Kirkuk, non si fosse già stretta. Per conservare la già squilibrata mezzadria sulla Baghdad di Abadi – il cui potere non è affatto solido, benché l’uomo attraversi una mezz’ora di euforia, e l’indipendenza da Teheran ancora meno solida – gli Stati Uniti hanno buttato via il loro caposaldo curdo. L’hanno fatto metodicamente, prima attaccando a oltranza il referendum curdo così spianando la strada alla ritorsione armata iracheno-iraniana (e presto turca), poi consentendo l’inva - sione congiunta dell’esercito iracheno, delle milizie sciite e dei pasdaran iraniani, e anzi, come esplicitamente ammettono, collaborando con essa. Masud Barzani ha sbagliato molte previsioni e si trova oggi con un paese smembrato e schiantato dalle fondamenta materiali e più ancora psicologiche, ma è difficile addebitargli di non aver saputo prevedere un simile comportamento americano. Su tutto ciò pesa in modo schiacciante la divisione fra le fazioni curde, intrisa di ipocrisie avidità e viltà, che ha insinuato negli animi della gente curda un sentimento travolgente di tradimento intestino e di abbandono del resto del mondo. Dovunque si canta il ritornello dei “traditori”.
Uno dei massimi comandanti peshmerga del Puk, Jafar Mustafa, capo della Forza 70, ha fatto apertamente il nome di Bavl Talabani, il primogenito di Mam Jalal, chiamandolo traditore. Una canzone del celebre cantore curdo Kawes Agha / Kaws Axa (1889-1936), Kurd khaino, “Curdi traditori”, dedicata a chi tradì Sheik Mahmud, il ribelle fondatore del “regno curdo” dopo la Prima guerra, viene adattata sui video contemporanei e ridiffusa dappertutto. Fra i “38 su 50” comandanti peshmerga citati come fautori della ritirata da Kirkuk la maggioranza si dice pentita o ingannata. La “normalizzazione” curda che anche Tillerson rivendica, certo auspicando dialogo, rispetto della Costituzione eccetera, cioè auspicando, ha finora comportato molti morti civili (centinaia?) a Tuz Khurmathu e a Kirkuk, un numero indefinito di “dispersi” (soprattutto a Kirkuk, dove si svolge una caccia all’uomo), almeno 250 morti e il doppio di feriti fra i combattenti delle due parti, e circa 180 mila sfollati curdi, nel paese che dal 2014 a oggi aveva ospitato quasi due milioni di profughi e sfollati siriani e iracheni. E nessuna normalizzazione è all’orizzonte
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