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Gli ebrei del silenzio Recensione di Giuliana Iurlano
Due grandi scrittori del Novecento hanno coraggiosamente rotto la cortina del silenzio sugli ebrei nella Russia sovietica: Elie Wiesel con Gli ebrei del silenzio del 1966 (1° ed. italiana, 1985) e Chaim Potok con Novembre alle porte. Cronache della famiglia Slepak del 1996, pubblicato in Italia due anni dopo. Entrambi ebrei (il primo, di origine rumena, sopravvissuto alla Shoah; il secondo, nato e cresciuto in America), ad un certo punto della loro vita hanno voluto parlare di un mondo nascosto, lontano, intrappolato nelle maglie della Guerra Fredda e, per questo, sfuggito alle logiche della contrapposizione tra le due superpotenze. Un mondo silenzioso, retaggio di un passato antigiudaico (ereditato dal cristianesimo ortodosso bizantino sin dall’anno Mille, quando Vladimir di Kiev distrusse il regno ebraico dei Kazari, assorbendone la popolazione all’interno della Russia) e di un antisemitismo duro e crudele, che si nutriva di pogrom e di violenze sistematiche ai danni dei circa 2.350.000 ebrei che abitavano la Zona di Residenza, creata da Caterina II alla fine del ’700, dopo l’acquisizione di parte della Polonia.
Una vera e propria “tradizione” antisemita, oscillante tra le effimere aperture di uno zar e le improvvise chiusure del suo successore. E, in questa logica perversa – sintetizzata nel 1895 da Konstantin Pobedonostev con queste parole: «Un terzo morirà, un terzo lascerà il paese e un terzo si dissolverà nel resto della popolazione», cioè si convertirà – la reazione degli ebrei era quella o di separarsi ancora di più, oppure di tentare a tutti i costi di integrarsi e di assimilarsi nella cultura e nella società russa. Il grande flusso migratorio che si riversò sulle sponde d’oltre Atlantico tra la fine del secolo e i primi anni del ’900 era composto da tutti coloro che volevano conservare interamente la propria ebraicità, mentre gli assimilazionisti, restando, si illusero, soprattutto dopo la Rivoluzione d’Ottobre, di aver cominciato una nuova era e di essersi messi alle spalle l’odio atavico contro gli ebrei. Per i tre decenni successivi, infatti, nella Russia ormai sovietica ci fu una sorta di acquiescenza della “questione ebraica”, ma essa era lì, che covava anche nelle ceneri della rivoluzione che avrebbe dovuto cambiare il mondo.
Durante gli ultimi anni dello stalinismo riemerse violentemente, per poi vivere nascosta fino agli inizi degli anni ’70, quando gli ebrei sovietici, che chiedevano il permesso di espatriare per recarsi in Israele o gli Stati Uniti, divennero merce di scambio del Cremlino nella logica del bipolarismo internazionale. I refusenik incominciarono, allora, a usare i canali di comunicazione con l’Occidente aperti dai dissidenti russi non ebrei e riuscirono a far passare ai corrispondenti esteri, insieme a documentazioni accurate sulle violazioni dei diritti umani, anche i lunghi elenchi di ebrei trattenuti dal governo sovietico, molti dei quali avevano dato inizio a veri e propri sit-in e allo sciopero della fame davanti all’ufficio del procuratore generale in via Puškinkaja, cosa che costò loro l’arresto “amministrativo”. Nella dura “guerra dei visti” – durante la quale il KGB sorvegliava strettamente gli ebrei, ne censurava la posta, ne monitorava i telefoni, li imprigionava o li metteva agli arresti domiciliari, li coscriveva nelle forze armate, li iscriveva su registri segreti per impedirne l’assunzione, minacciava i loro familiari, li accusava di spionaggio, li imprigionava “amministrativamente”, li esiliava o li inviava nei famigerati campi di lavoro – valeva un solo principio, quello che Elie Wiesel ha riassunto così: «L’ebreo non può essere né ebreo né non ebreo». Un paradosso, dunque, sostanziato da quello strato spesso di paura che sembrava accompagnare gli ebrei russi, gli “ebrei del silenzio”. Il loro silenzio, ma anche il silenzio del mondo.
http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90 |
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