Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 17/10/2017, a pag. 1, con il titolo "Senza leadership americana si sta male", il commento di Adriano Sofri; con il titolo "La neutralità di Trump", il commento di Paola Peduzzi; dal CORRIERE della SERA, a pag. 9, con il titolo "Dove andranno i leoncini del Califfo?", il commento di Guido Olimpio.
L'assenza di leadership americana in Medio Oriente mette in pericolo l'esistenza stessa del Kurdistan e dei suoi abitanti, che hanno lottato per raggiungere l'indipendenza. Alle ottime dichiarazioni di Trump in questi mesi, infatti, non sono seguite per ora azioni concrete in sostegno dei kurdi e contro la minaccia iraniana. Sarà dovuto alla presenza, nell'Amministrazione Trump, di consiglieri che remano contro, come Rex Tillerson?
Ecco gli articoli:
Il Kurdistan stretto tra Turchia, Iraq, Iran
IL FOGLIO - Adriano Sofri: "Senza leadership americana si sta male"
Adriano Sofri
Come accogliere qualcosa che minacciava d’essere un’epica tragedia ed è stata una farsa? E’ il problema dei curdi del giorno dopo. Si può rendere grazie della scampata tragedia, ci si sente umiliati della farsa. Non vengono date cifre, ma i peshmerga e i civili curdi morti fra la notte e la mattina di lunedì sono più di cento. Loro sono l’ostacolo principale: sono morti per una farsa. Si diffondono immagini di folla festante attorno agli iracheni “liberatori” di Kirkuk. Balle. Da Kirkuk lunedì non sono fuggiti solo i curdi, ma anche in massa gli arabi sunniti, spaventati più dei curdi dall’entrata dei fanatici sciiti Hashd al Shaabi. Nella città sono rientrati, d’accordo coi liberatori, gli Asaish, la sicurezza curda del Puk. Le strade sono piuttosto vuote, camionette Shaabi diffondono a tutto volume dagli altoparlanti le salmodie del martirio di Hussein. Contenti davvero sono i turcmeni sciiti. Ai curdi viene chiesto se erano del Puk o del Pdk: la gente sa qual è la risposta giusta.
Lunedì i miliziani sciiti avevano dato alle fiamme le sedi del Pdk. Il giorno dopo, mentre solo alcuni dei curdi di Kirkuk, per non perdere case e lavoro, rientravano nella città in cui carnevalescamente tutte le bandiere sventolano tranne la loro, le forze irachene completavano l’opera prendendo possesso pressoché senza colpo ferire (qualche colpo, “20 minuti”, si è scambiato nella periferia di Sinjar) di tutte le aree “contese” già disertate dall’Iraq e occupate dai curdi contro l’Isis: Khanaqin (dove al referendum avevano votato quasi tutti gli aventi diritto e tutti per il Sì), tutti i pozzi di Kirkuk, la frontiera di Makhmur e Gwer, e soprattutto l’intero territorio di Sinjar-Shingal, la culla degli yazidi e la scena della loro persecuzione da parte del Califfato, cui i curdi l’avevano strappato nel novembre 2015 dopo 15 mesi di occupazione. In pratica la Regione autonoma curda viene riportata dentro i confini del 2003, e la rivalità-alleanza fra il Pdk di Erbil e il Puk di Suleymanyah che ha governato gli ultimi anni è azzerata. C’è un altro paese, un altro mondo, nel giro di due giorni, in cui l’immaginazione si muove a tentoni come quando va via la luce: esperienza comune qui, ma il guaio è quando la luce va via e ci si chiede che cosa sta architettando il proprio vicino. Dopo l’orgoglio degli anni di prodezza nella guerra all’Isis è venuta la mortificazione dell’onore perduto, quando l’inchiostro sui polpastrelli non era ancora del tutto cancellato.
Il Kurdistan del referendum non c’è già più, e non c’è nemmeno il Kurdistan risuscitato del 2003: quello che resta è opaco, forse due gruppi con le mani sulla città, sulle “loro” città, ammesso che nessuno presenti loro il conto. La metà della popolazione curda ha meno di vent’anni: chissà che si diano un appuntamento. La farsa ha un altro grande coautore: Donald Trump. Aveva tuonato contro i pasdaran iraniani burattinai del terrorismo mediorientale e universale. All’in - domani ha consentito, lui e l’intera “coalizione”, che un’armata equipaggiata e addestrata dagli Stati Uniti “per combattere l’Isis”, ai comandi dell’uomo forte dei pasdaran iraniani, si impadronisse di Kirkuk, petrolio, gas e antica cittadella monumentale compresi. Gliel’ha detto, benissimo come al solito, John McCain. Sicché a Raqqa liberata si festeggiava, e ci si chiedeva a che ora gli americani scaricheranno anche lì i loro prediletti “boots on the ground”.
IL FOGLIO - Paola Peduzzi: "Dopo il voto d’Austria"
Paola Peduzzi
Raqqa è stata liberata dallo Stato islamico, le Syrian democratic forces (Sdf) curdo-arabe hanno detto che “la situazione è sotto controllo”, continuano le “operazioni per distruggere cellule dormienti, se ce ne sono”, ma non sventola più la bandiera nera che rievocava le tante esecuzioni che hanno avuto come teatro questa Raqqa devastata. Lo Stato islamico perde la sua roccaforte siriana, già era in fuga e a caccia di nuove aree ma i simboli sono importanti, e la caduta di Raqqa è un segnale potente di come la coalizione a guida americana stia vincendo la guerra contro il gruppo di al Baghdadi. Ora si apre una fase cruciale – non ora in realtà, è da tempo che si dice: pensiamo a come vogliamo organizzare le aree liberate dallo Stato islamico, i nostri “boots on the ground” avranno le loro pretese e i loro interessi da difendere, è necessario e urgente l’esercizio di una leadership che faccia da mediazione e da sintesi in una terra tormentata da secoli di conflitti. Tocca a noi, insomma, a noi occidentali, agli americani soprattutto senza i quali nessuna operazione militare può avere successo. Il problema è qui: non c’è esercizio di leadership negli Stati Uniti di Donald Trump. C’è confusione, c’è improvvisazione, si procede per istinto o per ripicca, a seconda del nemico interno del momento. Quest’assenza costellata di invadenze casuali diventa pericolosa e frustrante in medio oriente. Basta vedere cosa è accaduto a Kirkuk e cosa sta accadendo in queste ore alla diga di Mosul che gli iracheni stanno riprendendo ai peshmerga (e ci riguarda: lì ci sono i soldati italiani) per capire che la confusione, il “non stare con nessuno”, come ha detto Trump, generano un caos di cui possono e sanno approfittarsene soltanto i più fanatici, quelli che sul non-controllo degli altri giocano la partita della propria influenza.
Fino a qualche anno fa, Trump non sapeva quasi chi fossero i curdi – li confuse, durante un’intervista, con le forze al Quds, che suonano in inglese quasi uguali ai “kurds”, ma sono alle dipendenze di Teheran –, oggi dice che, come si sa, i curdi sono alleati da sempre degli Stati Uniti, ma siccome noi, cioè gli americani, “non avremmo dovuto nemmeno esserci in Iraq”, la Casa Bianca si dichiara neutrale. La Casa Bianca sostiene sia l’esercito iracheno sia le forze curde: se queste si scontrano tra di loro, Trump dice che “non si schiera da nessuna parte” e il dipartimento di stato parla di “incom - prensioni” e chiede che torni la calma. Ma il problema è a monte: una volta che lo Stato islamico viene cacciato dai terreni che ha occupato dal 2014, è necessario avere una visione, un piano, per la redistribuzione di queste terre, altrimenti gli interessi di ogni gruppo che ha combattuto lo Stato islamico diventano padroni, e si sa che questi interessi non sono convergenti, e che la divergenza si misura in conflitti e in numero di morti. Questo vale in Iraq come in Siria, e vale per i curdi, per le brigate sciite, per l’esercito iracheno, per quello siriano, e per i russi. Quel che è accaduto negli ultimi giorni a Kirkuk è esemplificativo. Saddam Hussein cacciò i curdi da Kirkuk, nel 2003 i curdi ripresero il controllo della città, causando una crisi con la popolazione araba che nel frattempo ci era andata ad abitare. Per un decennio si è discusso dello status di Kirkuk, ma nel 2014 è arrivato l’Isis, che ha preso Mosul e quasi anche Kirkuk, difesa dai peshmerga che da allora hanno tenuto il controllo della città. Il referendum sull’indipendenza curda – che non è una dichiarazione unilaterale della costituzione di uno stato curdo – ha rianimato la lotta per Kirkuk, e così le forze irachene sono rientrate nella città. Aiutate – anzi, guidate – da quelle brigate sciite cui già l’Amministrazione Obama aveva dato mandato informale di “boots on the ground” contro l’Isis, e che oggi vogliono esercitare la loro influenza (non è un caso che le operazioni a Kirkuk siano state organizzate dalla mente degli iraniani all’estero, Qassem Suleimani). Senza un piano, senza una leadership, quel che è accaduto a Kirkuk riaccadrà altrove, mentre l’assenza americana sarà scandita dai commenti infantili (e sciagurati) di Trump, che dice che quel che sta succedendo è molto brutto. E i curdi, alleati storici dell’America, convinti difensori dell’America, si ritrovano con la loro terra dimezzata, in ginocchio davanti agli iraniani, un’umiliazione indimenticabile.
Corriere della Sera - Guido Olimpio: "Dove andranno i leoncini del Califfo?"
Caro titolista del Corriere, "leoncini"? sono terroristi criminali, tagliagole, come ti è venuto in mente un vezzeggiativo simile?
Guido Olimpio
Lo Stato Islamico perde le sue roccaforti una dopo l’altra, gruppi di combattenti si disperdono, colonne raggiungono nuovi rifugi, nuclei di meno convinti alzano bandiera bianca. Periodo tumultuoso che coinvolge militanti di esperienza, ma anche le loro famiglie. Alcuni sono fatti prigionieri, altri uccisi. Dietro restano donne e figlioletti, una realtà che rappresenta un problema per molti Paesi europei. Che fare di loro? Come accertare le responsabilità? E come recuperare bimbi spesso testimoni o persino autori di violenze inaudite? I numeri indicano quella che può diventare un’emergenza che si aggiunge al pericolo per la sicurezza rappresentato dai veterani islamisti. Il Belgio ha censito un centinaio di minori nel Califfato: 29 nati in patria, il resto in Iraq e Siria. Il 60% ha un’età compresa tra 0 e 4 anni, il 20% tra 4 e 8. La Francia ne ha 460, la metà sotto i cinque anni. Una cinquantina sono rientrati nei confini nazionali. L’Olanda ne segnala un’ottantina. La Gran Bretagna oltre 50.
L’Italia, che tra gli Stati dell’Unione è quella con una presenza relativamente bassa di mujaheddin (125), ritiene che i piccoli non superino la mezza dozzina. La situazione caotica sul terreno rende difficile l’identificazione e la localizzazione. Inoltre i massacri compiuti dai tagliagole spingono i vincitori — specie le milizie — alla vendetta. Purtroppo guerriglieri di Daesh hanno addestrato dozzine di ragazzini a diventare combattenti, li hanno sottoposti a un indottrinamento pesante, per poi utilizzarli nei video di propaganda come boia. Erano e sono i «leoncini», i «cuccioli» cresciuti per portare avanti la lotta quando i padri non ci saranno più. Sono creature senza infanzia e forse senza un futuro a meno che non ci siano dei programmi ad hoc che li riportino a una vita normale, sempre che superino traumi inauditi. E anche volendo è tutt’altro che semplice convincere alcune madri, immerse fino al collo nell’attività politica a collaborare in un’attività di de-radicalizzazione speciale, studiata per bimbi. Che non sono tutti uguali. I francesi hanno individuato tre categorie: i partiti al seguito dei genitori, i nati nelle zone di guerra, i nati in Europa e con il padre sui fronti del Jihad.
È evidente che ognuno presenta un aspetto diverso, molto personale, con caratteristiche che cambiano a seconda dell’ambiente. I belgi, con la collaborazione dei turchi, sperano in piccoli centri di passaggio nel settore di Idlib, dove chi vuole tornare può presentarsi. È solo il primo passo, sperimentale. Una volta tornati a casa devono essere presi in carico da psicologi ed esperti, al tempo stesso serve un setaccio per evitare sorprese. Per gli adolescenti c’è anche un percorso giudiziario minorile. Non va dimenticato che l’Isis, nel 2017, è riuscito a reclutare in Francia e Germania numerosi sedicenni ai quali aveva affidato il compito di condurre attacchi. Ordini impartiti in modo remoto, via Internet. Se il collasso dovesse proseguire è probabile che gli ispiratori cercheranno di coinvolgere i più giovani in quanto manipolabili. Esseri fragili trasformati in vuoti a perdere e istigati a compiere attentati. Per i governi occidentali è forte la tentazione di lasciare queste comunità di connazionali in Medio Oriente. Gli irriducibili rischiano di lasciarci la pelle, i familiari rimangono in un limbo. La sorte affidata al caso. Per i primi non piangiamo, pagano per i loro crimini. Lo stesso non possiamo dire dei bambini plagiati e finiti sotto la bandiera di Al Baghdadi. Loro non hanno scelto.
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