Quando all'immigrazione non segue l'integrazione
Commento di Antonio Donno
In verde, la linea di confine tra Stati Uniti e Messico
Il presidente Trump ha deciso di allargare e rinforzare il muro che separa gli Stati Uniti dal Messico al fine di impedire l’immigrazione clandestina dei messicani e degli ispanici in generale. Critiche a non finire gli sono piovute addosso, anche se si fa finta di non ricordare che la costruzione del muro risale a George H.W. Bush, ripresa e ampliata da Clinton, e condivisa da Obama. Ma tutto questo fa parte dell’anti-trumpismo dilagante. Lo si accusa di razzismo, ma Clinton e Obama furono esenti da quest’accusa.
Il muro tra Usa e Messico
La questione dell’immigrazione clandestina messicano/ispanica è all’ordine del giorno da decenni e costituisce un problema molto rilevante per gli Stati Uniti. Nel 2004 Samuel Huntington pubblicò un libro molto importante, Who Are We?, tradotto in italiano con il titolo orrendo di La nuova America (Garzanti), che ha purtroppo avuto una diffusione ben al di sotto del più famoso The Clash of Civilizations, opera allora criticata da alcuni, ma che si è rivelata profetica. Un grosso capitolo è dedicato, appunto, al problema dell’immigrazione messicana. La prima fondamentale osservazione di Huntington è che i messicani stanno, di fatto, operando una vera e propria reconquista di tutte quelle immense regioni (California e gli Stati del Sud-Ovest) – sottratte al Messico dall’espansione degli Stati Uniti nell’Ottocento – mediante un processo di multiforme ispanizzazione. Una sorta di “nation-building” tutto interno ad uno Stato in cui ci si è inseriti, legalmente o clandestinamente. In primo luogo, la contiguità tra i due paesi è un fattore di grande rilevanza. Mentre, nel passato, l’immigrazione dall’Europa aveva incontrato il terribile ostacolo dell’attraversamento dell’Atlantico, nel caso in questione le difficoltà di penetrazione sul suolo americano sono infinitamente inferiori.
Da questo punto di vista, l’immigrazione illegale è molto elevato e, nella sostanza, incalcolabile. Negli anni Novanta, scrive Huntington, “i messicani erano più della metà di tutti gli immigrati latino-americani presenti negli Stati Uniti”. Tale cifra è dovuta, in modo molto considerevole, all’ingresso clandestino, tanto che Clinton, a suo tempo, definì questo tipo di illegalità “una minaccia alla sicurezza nazionale”. Dopo di che, poco si è fatto, certamente per non irritare gli elettori democratici di origine messicana o i latinos, in generale, o per non essere accusato di razzismo. Inoltre, la concentrazione regionale ha una rilevanza tutta particolare. Come si è detto, i messicani e i latinos sono concentrati in California e negli Stati del Sud-Ovest, i cubani in Florida. Questa concentrazione ha una conseguenza di primaria importanza: nel passato, la varietà e la dispersione favorivano l’integrazione, mentre la presenza massiccia solo in alcune regioni l’allontanano: un fatto inquietante, secondo Huntington. Il flusso di immigranti, legali o clandestini, provenienti dal Messico e da altre nazioni di lingua spagnola, è divenuto costante nel tempo. Questo è un ulteriore elemento che distingue l’immigrazione dall’Europa o dalla Cina da quella messicana/ispanica. E, poiché l’immigrazione è un fattore che si autoalimenta, ne consegue che l’immigrazione messicana, per tutte le ragioni che abbiamo detto, è un’immigrazione costante, a catena e, perciò, più difficile da arrestare o persino da contenere.
Il processo di assimilazione, in questo caso, diventa sempre più difficile. Tutti questi fattori, strettamente intersecati, rendono l’assimilazione dei messicani/ispanici molto più complessa di quella di altri gruppi etnici, considerata anche la tendenza – alimentata dalla concentrazione in alcune aree del paese – a conservare e trasmettere ai propri figli l’uso dello spagnolo e talvolta il rigetto stesso dell’inglese. Un ultimo dato importante da considerare è che, rispetto agli immigrati di altra origine, la mancata o non voluta integrazione nel sistema di vita americano spinge i messicani, più di ogni altro gruppo etnico, a vivere in miseria o a carico dei servizi sociali. Questo è un grave danno per l’economia americana e un motivo di risentimento – falso – nei confronti della società americana, ritenuta responsabile della loro condizione. “Il vero criterio di assimilazione – scrive Huntington – per gli immigrati è il grado di identificazione negli Stati Uniti come paese, l’accettazione del suo credo, la condivisione della sua cultura, con il corrispondente abbandono della fedeltà ad altri paesi, ai loro valori e alle loro culture”. Questo è storicamente accaduto per la massa enorme di immigrati provenienti dall’Europa, la cui condizione economica e sociale, nel corso del tempo, si è elevata ben al di sopra di quella dei messicani/ispanici. Per questi ultimi non è mai esistito il “sogno americano”, semplicemente perché non lo hanno assimilato o non lo hanno condiviso fin dall’inizio. “C’è solo il sogno americano creato dalla società anglo-protestante. Gli americani di origine messicana – conclude Huntington – lo potranno condividere, e potranno far parte di quella società, solo se sogneranno in inglese”.
In conclusione, le accuse di razzismo dirette a Trump a proposito dell’allargamento e rafforzamento del muro fanno parte dell’ipocrisia e della malafede di quei settori “progressisti” della politica e dell’opinione pubblica americane che ne vogliono la testa, fingendo di dimenticare che il muro è parte della politica dei loro beniamini politicamente corretti.
Antonio Donno