Riprendiamo da SHALOM di settembre 2017, a pag. 11, con il titolo "Golan: su un lato si combatte e su un altro si cura", l'analisi di Fiamma Nirenstein.
Fiamma Nirenstein
Sono quasi 5000 i siriani feriti accolti in Israele e curati nel centro medico di Safed Ziv. È un impegno etico e morale che non fa distinzioni tra le diverse parti in conflitto Tutto il mondo dovrebbe sapere come Israele tratta i pazienti siriani raccolti sui margini della guerra e trasportati nei propri ospedali per essere curati. Una volta durante una delle guerre fra Israele e la Siria il ministro degli Esteri siriano per dimostrare ai soldati quanto si devono odiare gli israeliani afferrò uno dei prigionieri e gli morse Assad padre e figlio hanno fatto a gara nelle maledizioni contro Israele. La popolazione è stata educata all’idea che Israele deve essere distrutta, e oggi si levano come da un girone dell’Inferno le voci di chi dal profondo della sofferenza ha potuto incontrare la verità di chi sono gli israeliani: sono quelli che alle prime luci dell’alba dopo un bombardamento dei russi, o degli americani, o di Assad, o di non importa chi, o che dalle grinfie dell’Isis ti caricano su un’ambulanza e ti portano per curarti con tutte le loro forze in un ospedale israeliano. Sono già quasi 5000 quelli che si sono trovati d’improvviso sulle barelle e poi nei letti d’ospedale degli ex nemici per la pelle.
Le alture del Golan
Non c’è nessuno scopo specifico in questa scelta dello Stato Ebraico, nessun disegno, perché i feriti raccolti appartengono alle due parti in con itto, a tutte le fasce d’età, sono donne e uomini, vecchi e giovani, provengono da ogni angolo di quella infelice terra ormai in guerra da sei anni, in cui sono andate perdute 450mila vite umane. E’ un gesto indispensabile per l’anima di Israele che contiene il significato stesso dell’esistenza dello Stato ebraico, luce per i goym, per i popoli, come dice la Bibbia. Qualche giorno fa la televisione ha mostrato sul Primo canale un immigrato nelle corsie dove vengono curate le persone soccorse. Nessuno gli chiede se amano la mano che li cura, perché la risposta sarebbe intimidita e perplessa all’inizio delle cure quando arrivano feriti, a volte senza un piede o col volto sfigurato, e negli occhi le ultime immagini dei loro cari che sono stati uccisi sotto le bombe. Ma poi non c’è nessuno che se ne vada senza amore e senza il senso di aver scoperto una verità indispensabile.
Cito esperienze vere, raccontate da persone vere mentre nel centro medico di Safed Ziv si muovono indaffaratissimi, cordiali, spicci e bruschi come sono gli israeliani medici, infermieri, volontari. Il dottor Salman Zarka, il capo del centro di salvataggio ha ormai fatto venire al mondo diciannove bambini siriani: è un colonnello medico, che ride dicendo che mai si sarebbe immaginato di dover dirigere questa operazione di aiuto in guerra. E’ lui che manda le ricette ai pazienti già tornati in Siria. Le loro esperienze in generale raccontano tre storie: la prima è l’orrore che hanno vissuto, la sofferenza sica acuta, le persone che hanno visto sparire sotto le macerie, il ricordo dei loro cari che non esistono più, il sangue ormai nella loro memoria: la seconda parla di quanto vogliono comunque tornare a casa, perché... perché sì... è la loro casa e non sanno spiegare oltre, e si riesce a malapena a capire quanto può essere potente questo concetto che resta una calamita anche per chi riparte verso il buco nero della guerra; e in terzo luogo, brilla la luce che dovrebbe sempre risplendere per guidare alla sospensione di ogni guerra: “ho sbagliato” dice una ragazza che è già al suo secondo ricovero a causa di terribili guai e impianti a una gamba macerata dalla ferita; e lo dice anche un giovane di 25 anni che parla attraverso le bende dopo aver subito terribili ferite alla mascella, ricucite con determinazione mentre con altrettanta determinazione lo si aiutava a tornare in gioco, a ricostruire il suo ego anch’esso lacerato dalle perdite in famiglia. Il quotidiano inglese Independent ha raccontato come qualche giorno fa gli ufficiali medici hanno deciso che, non importa a quale pericolo si andava incontro, si doveva chiamare assolutamente l’elicottero perché le ferite accertate richiedevano una cura urgentissima: “Due dei sette pazienti che abbiamo raggiunto nottetempo non potevano aspettare, avevano ferite profonde. Abbiamo verificato il respiro, il battito cardiaco, la pressione sanguigna. Sempre guardiamo per intero il loro corpo e decidiamo che trattamento devono subire. L’elicottero è atterrato nella notte vicino a noi”.
Israele sa benissimo che non può contare sull’umanità per costruire un rapporto migliore col mondo arabo: il migliore esempio sono Hamas e l’Autorità palestinese, i cui uomini, i cui bambini, sono stati a migliaia e migliaia trattati, curati con amore, coccolati nelle strutture israeliane per poi torna- re a esercitare il medesimo odio cieco, la solita violenza, la solita guerra. Con la Siria i rapporti sono stati sempre amari, dai tempi di Hafez Assad, finché l’odio e la guerra sono stati rinnovati da Bashar. Nel 1967, attaccato dalla Siria, Israele conquistò le alture del Golan, una terrazza strategica su Israele.
C’è da ringraziare il cielo che la formula sempre più vuota dei confini del ‘67 non abbia influenzato la politica israeliana spingendo, come a volte sembrava, alla restituzione di quel minuscolo pezzo di terra strategico non solo per gli equilibri dell’area, ma del mondo intero, dato che se Israele non lo controllasse avrebbe potuto oggi diventare una rampa di lancio per l’Isis o, alternativamente per l’Iran e gli hezbollah. Rabin era contra- rio alla restituzione. In questi giorni intorno alla questione siriana la discussione prende toni sempre più drammatici, perché la fragile tregua in corso è accompagnata da un consolidamento della presenza iraniana e da un rafforzamento degli Hezbollah: il credito che gli viene consentito è legato alla speranza di battere l’Isis. E tuttavia se il prezzo da pagare, come appare oggi, è quello dell’improvvisa creazione di un con ne libanese-siriano dominato dall’Iran e dai suoi scherani Hezbollah che usano il cemento della promessa di distruggere Israele per intessere alleanze con Hamas, con la Turchia di Erdogan, che costruiscono in Siria fabbriche d’armi e nascondono missili nelle case e nelle strutture pubbliche libanesi, è un prezzo troppo alto perché Israele possa permetterlo. La sua disponibilità umana è senza pari. Ma non deve essere scambiata per acquiescenza a un pericolo strategico senza precedenti come quello dell’Iran alle porte.
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