Grazia Longo: "Killer di Marsiglia, fermato a Chiasso anche l’ultimo dei fratelli Hanachi"
Grazia Longo
Cinque fratelli, tutti in qualche misura legati al terrorismo islamico. È finito in carcere anche il quinto fratello di Ahmed Hanachi, il tunisino che il 1° ottobre a Marsiglia ha accoltellato a morte due cugine ventenni dopo il proclama «Allah u akbar».
Anouar Hanachi è uno dei due arrestati - l’altro è sua moglie - domenica sera a Chiasso, dalla polizia del Canton Ticino. La coppia stava per entrare in un centro per richiedenti asilo. Sono stati arrestati per ragioni amministrative, non avevano i documenti in regola.
Ahmed Hanachi
E anche Anouar, «già noto ai servizi di polizia esteri per i suoi legami con il terrorismo di matrice jihadista» come ribadiscono gli inquirenti svizzeri, ha vissuto per un certo periodo in Italia. In Puglia, a Taranto per la precisione, dove era stato arrestato pochi mesi fa per spaccio. L’attentatore della stazione di Saint Charles aveva vissuto anni ad Aprilia, in provincia di Latina. Il fratello Anis, arrestato a Ferrara sabato sera, era stato precedentemente segnalato a Rimini e Anouar era stato appunto identificato e arrestato a Taranto.
Al momento non ci sono, tuttavia, elementi per stabilire se i fratelli Hanachi avessero mai progettato di agire sulle orme della Jihad nel nostro Paese. C’è invece l’ipotesi di una rete fra Francia, Italia e Svizzera legata a loro. Altri due fratelli Hanachi, Anwra e la giovane Emna, sono stati arrestati in Tunisia perché ritenuti pericolosi estremisti islamici.
Va chiarito che Anouar Hanachi non risulta essere un foreign fighter, lo stesso vale per Ahmed. L’unico che, secondo le autorità tunisine, si è radicalizzato in Iraq e Siria è Anis, fermato a Ferrara dalla Digos. Sarebbe lui ad aver affiliato i fratelli in nome del Califfo. Ma la nostra Antiterrorismo, i carabinieri del Ros e l’intelligence sono al lavoro, in collaborazione con i colleghi francesi e svizzeri, per accertare i ruoli precisi dei vari fratelli nell’attentato di Marsiglia e nel possibile coinvolgimento in altri atti terroristici.
Anouar e la moglie sarebbero arrivati in Svizzera, provenienti dall’Italia, probabilmente nella giornata di sabato 7 ottobre. La polizia federale svizzera precisa di «aver ordinato l’espulsione della coppia arrestata domenica sera dalla Polizia del Cantone Ticino presso il centro di registrazione di Chiasso per minaccia alla sicurezza interna della Svizzera».
Le due persone, sottolinea ancora la polizia federale, «rimarranno in carcere in vista della loro espulsione, ovvero fino a quando non saranno stati definiti i dettagli relativi all’esecuzione della decisione di espulsione». Al momento del fermo i due non hanno opposto alcuna resistenza.
Il materiale sequestrato alla coppia, a partire dai telefonini potrà rivelare quanto ancora ampia sia la rete dei fratelli Hannachi e se stessero pianificando ulteriori azioni in giro per l’Europa. Le verifiche sono solo all’inizio, ma risulterebbero contatti telefonici tra i tre arrestati la sera prima dell’accoltellamento delle due cugine a Marsiglia.
Dalla Svizzera il direttore del Dipartimento delle istituzioni Norman Gobbi, come riportato dal giornale elvetico «La Regione», punta l’attenzione sul segnale preoccupante rappresentato dalla mobilità dei potenziali terroristi. «Anche Abderrahman Mechkah, l’accoltellatore di Turku, lo scorso agosto in Finlandia, era venuto a Chiasso - ricorda -. Il diciottenne marocchino, aveva chiesto asilo nel 2016. Il suo passaggio dimostra come la nostra posizione geografica sia, da un lato, strategica, ma dall’altro ci esponga a maggiori rischi legati ai flussi migratori, legati alla vicinanza della metropoli lombarda. È importante, però, riconoscere che molto è stato intrapreso nell’ambito dei controlli preventivi, volti a depistare per tempo entrate che possono mettere in pericolo la sicurezza interna».
Manuela Messina: "Torture, stupri e sevizie nei campi libici: Ergastolo all’aguzzino dei migranti"
Stupri, scariche elettriche, in un campo circondato da fil di ferro e difeso da guardie armate. Per decine di migranti in viaggio verso l’Europa, il centro di prigionia di Bani Whalid, duecento chilometri a Sud di Tripoli, è stata la tappa all’inferno. A renderla tale, secondo la Corte d’Assise di Milano che ieri lo ha condannato all’ergastolo e a tre anni di isolamento diurno, è stato il somalo Osman Matammud, 22 anni, lo sguardo perso dietro le sbarre nell’aula del tribunale, un passato di violenza e povertà estrema alla periferia di Mogadiscio. Decine di suoi connazionali, ospiti del centro milanese di via Sammartini a Milano, hanno avuto un sussulto quando si sono trovati di fronte, per pura casualità, nel settembre scorso, a quello che hanno indicato come il loro aguzzino. Lo hanno circondato, si sono sbracciati, hanno alzato le magliette per mostrare le cicatrici, fino a quando gli agenti della polizia locale non hanno potuto fare altro che ascoltarli. Le indagini del pm Marcello Tatangelo e dell’aggiunto Ilda Boccassini hanno portato alla luce quell’orrore, di fronte al quale Matammud si è sempre professato innocente. Ma diciassette ragazzi e ragazze in questi mesi di processo lo hanno indicato come «Ismail», uno dei capi del campo di prigionia.
Le loro testimonianze hanno scosso i giudici d’Assise, che dopo cinque ore di camera di consiglio, hanno emesso il verdetto di pena massima. «Ci legava i piedi con il fil di ferro e ci teneva a testa in giù. E se urlavi - ha raccontato un testimone - ti metteva la sabbia in bocca». Lo scopo delle torture era renderli disperati, al telefono con le famiglie a cui chiedevano il denaro per proseguire il viaggio. «Ci faceva del male mentre parlavamo al cellulare, per fare sentire ai nostri cari il nostro dolore e spingerli a mandarci i soldi prima possibile». Altri hanno parlato in aula di una stanza delle torture, dove Matammud avrebbe inflitto le sue sevizie e stuprato le sue prigioniere. «Guardava le ragazze - ha raccontato un altro - e prendeva quelle che gli piacevano di più. Al loro ritorno le vedevamo piangere». Il giovane, che ha mostrato alla Corte le cicatrici sulla gamba e sull’addome, ha invece sostenuto di essere stato egli stesso sequestrato nel campo e di essere vittima di un complotto, ordito da un clan rivale e o forse nato da un litigio per il cibo. Diversa l’opinione del pm Tatangelo, che si è visto accogliere la richiesta di carcere a vita. «A soli 22 anni aveva in mano la vita di centinaia di persone e si è sentito onnipotente. È un sadico, uno che si diverte a torturare e a uccidere». Secondo il suo difensore, Gianni Maria Rossi, il ragazzo invece «era solo un migrante che ha viaggiato con altri migranti per raggiungere la sua famiglia». Solo due settimane fa Matammud ha visto per la prima volta la sua bambina, nata tre anni prima e che ha conosciuto per la prima volta da dietro le sbarre. «Spero nel cielo», ha riferito al suo difensore, che farà ricorso in appello, dopo la lettura del dispositivo, tradotto da un’interprete forense somala instancabile.
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