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Informazione Corretta Rassegna Stampa
09.10.2017 IC7 - Il commento di Fiona Diwan: Il sole nella goccia
Dal 1° al 7 ottobre 2017

Testata: Informazione Corretta
Data: 09 ottobre 2017
Pagina: 1
Autore: Fiona Diwan
Titolo: «IC7 - Il commento di Fiona Diwan: Il sole nella goccia»

IC7 - Il commento di Fiona Diwan
Dal 1° al 7 ottobre 2017

Il sole nella goccia

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Il pensiero si riflette nella parola come il sole in una goccia d’acqua, scriveva negli anni Trenta in Russia il geniale psicologo Lev Semionovic Vigotskij, un pensatore oggetto oggi di una interessante riscoperta. La grandezza dell’astro diurno tutta racchiusa nell’infinitesima particella liquida di una goccia d’acqua, l’immenso sole che si specchia nella bellezza di una cosa infima come una lacrima. Un concetto molto chiaro a qualsiasi scrittore, questo. E ben lo sanno gli autori contemporanei d’Israele che sono sempre stati la coscienza critica del Paese, la goccia d’acqua dentro cui si riflette la vita, specie dagli anni Sessanta in avanti. Voci inquiete, a volte dissonanti rispetto all’establishment politico del momento, a volte voci schierate politicamente e parte integrante del pensiero radical israeliano e del main stream di sinistra tipico degli abitanti di Tel Aviv. Scrittori coinvolti, impegnati, diremmo usando un termine anni Settanta. E come non esserlo, come potrebbe essere altrimenti in un Paese come Israele, un luogo così contraddittorio, così complesso, multietnico, tecnologico, selvaggiamente secolarizzato e profondamente religioso?

Sia chiaro: non stiamo parlando di una letteratura impegnata, quanto di singoli scrittori che forti del proprio talento e successo, spesso assumono posizioni pubbliche e rilasciano interviste sulla situazione sociale e politica, interna ed estera, sui conflitti interni, dal caro-vita alla questione palestinese, dai candidati alle elezioni all’immigrazione ai problemi sociali, opinion maker solo in virtù del proprio talento letterario. Del resto, parlare di letteratura impegnata non ha mai avuto nessun senso, poichè esiste solo una buona o una cattiva letteratura, e un buon romanzo non c’entra nulla con le categorie morali, con ciò che è corretto o giusto, né tantomeno con il politicamente corretto. Eppure, immancabilmente, troviamo Amos Oz, David Grossman o Abraham B. Yehoshua, i “tre tenori“ delle belle lettere israeliane che non resistono alla tentazione di rilasciare interviste a tutto campo, specie su testate europee, sul conflitto o sulla situazione palestinese, sulle guerre limitrofe, sulla demografia, su Trump, eccetera... Interviste in cui a volte è impossibile non avvertire quanto il giornalista intervistatore gongoli di piacere nell’annotare quanto la posizione di critica verso il proprio Paese di questi grandi romanzieri vada a confermare pregiudizi e faziosità consolidate.

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Ecco: e allora noi che leggiamo queste interviste, mentre scorrono le righe avvertiamo spesso un fastidioso strabismo, il rischio di una lettura distorta e strumentale della realtà, il travisamento delle posizioni le quali, se viste da un punto di vista israeliano, suonano preoccupate o indignate ma se lette con l’ottica europea immediatamente sembrano accusatrici e distruttive. “Guardate, lo dicono persino loro che in Israele rischia l’Apartheid”... Lo sappiamo: qualsiasi cosa succeda in quell’angolo di pianeta viene amplificato a dismisura e assume toni immediatamente apocalittici e forcaioli, per questo la cautela sarebbe consigliabile. Non dimentichiamoci che in Israele, esiste una dialettica interna a volte feroce, nessuno le manda a dire, c’è una vitalità comunicativa che infiamma a 360 gradi il dibattito pubblico, anche per questioni modeste o risibili. Ecco perché queste interviste con le loro relative esternazioni, idiosincrasie, spirito di denuncia o aggressività verbale, andrebbero doverosamente contestualizzate, pena il travisamento del loro senso.

Sia chiaro, ben vengano voci dissonanti e eterodosse, nessuno pretende di mettere a tacere scrittori o intellettuali, come accade in altri luoghi del Medioriente. Si tratta semplicemente di non porgere il fianco alla malafede di detrattori sempre pronti a puntare il dito contro Israele. Gli scrittori israeliani hanno la fortuna di poter maneggiare del materiale che diventa immediatamente fiammeggiante, incandescente, e che fa i conti con una tale ricchezza di echi e una tale complessità di situazioni da lasciare a volte stordito il lettore: la quotidianità lacerata e vitalistica di Israele, la storia del popolo ebraico, gli echi biblici e i continui riferimenti a metafore e miti tratti dalla Torà o dal Midrash, una lingua, l’ebraico, nuova e antichissima... Zeruya Shalev, forse una degli autori più potenti e geniali dell’Israele di oggi, sa mescolare –regalandoci un capolavoro-, l’incubo degli attentati terroristici, la difficoltà del mestiere di genitori e l’eco biblico della storia di Giuseppe, metafora eterna della difficoltà dei rapporti familiari e tra fratelli, nel suo ultimo romanzo Dolore (Feltrinelli). La giovane e bravissima Ayelet Gundar Goshen non ha paura di affrontare la miserrima condizione dei clandestini etiopi entrati in Israele dal Neghev e riuscire a commuoverci e avvincerci con il capolavoro Svegliare i leoni – Giuntina). Eshkol Nevo racconta delle manifestazioni contro il caro-vita, Orly Castel Bloom ci narra la sua Tel Aviv post-apocalittica, sgangherata, tra horror e pulp... Il pensiero si riflette nella parola come il sole in una goccia d’acqua, dicevamo all’inizio.

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Ben lo sapeva anche un altro geniale scrittore della tradizione ebraica, Isaac Bashevis Singer, di cui si annuncia la prossima uscita, entro 15 giorni, di un nuovo romanzo, addirittura un inedito scritto negli anni Settanta e mai pubblicato in libro perché lo stesso Singer cambiò idea, per paura che il tema scandaloso potesse alimentare l’antisemitismo: il romanzo, una gangster story, parlava di prostitute e magnaccia, e gettava una luce torbida e non certo idilliaca sul mondo ebraico. Singer sapeva, come gli autori israeliani di oggi, che quando si parla di ebrei (e adesso dello stato di Israele), anche gli scrittori devono usare una certa cautela “perché qualsiasi parola potrebbe essere usata contro di loro”. Singer cercava nelle profondità salmastre di un barile di aringhe il dialogo con se stesso, la fine di un estenuante combattimento interiore, le ombre di un mondo di fantasmi scomparso nella Shoah. Gli scrittori di oggi ci raccontano della società in cui vivono, ne criticano le contraddizioni, la demistificano, la sbeffeggiano o la dipingono con i toni surreali di un racconto pulp, quelli grotteschi di una realtà assurda. Ma una cosa è un racconto, l’arte di narrare la complessità e la capacità di trasmetterla, la responsabilità individuale delle proprie parole; altro sono le opinioni amplificate dai media e l’uso fuorviante che a volte, se ne può fare.

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Fiona Diwan, direttrice del Bollettino della Comunità ebraica di Milano


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